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Elezioni e referendum
Le elezioni, la democrazia e la “democratura”
Franco Livorsi

Sarà perché ormai sono vecchio, ma in questo mondo politico mi sento sempre più fuori tempo (Nietzsche direbbe “inattuale” per libera scelta). Osservo i conflitti dei miei amati connazionali e provo uno stato d’animo di strano e un po’ trasognato stupore, come se assistessi a una delle commedie dell’assurdo di Jonesco, del tipo della “Cantatrice calva” (1950), in cui uno dice una cosa e un altro replica con frasi che non vi si connettono per niente, ma i dialoganti vanno avanti ugualmente come niente fosse, a dimostrazione del fatto che la conversazione è fasulla, ma soprattutto del fatto che l’incomunicabilità sembra essere “normale”. Non capita per caso. La sconfitta del referendum costituzionale e della coeva legge elettorale tra dicembre 2016 e gennaio 2017 ci ha gettato in una sorta di terra di nessuno, in cui il vecchio si sbriciola e il nuovo non sorge ancora: un nuovo che dai sintomi potrebbe pure essere “peggiore” sia della prima Repubblica (1948/1994) che della cosiddetta seconda (1994/2018). Ma tutti operano perché questo “nuovo” - nel caso in questione presumibilmente “peggiore” - emerga (pur non volendolo affatto). E siccome ben pochi operano per “il meglio”, ma nel migliore dei casi per quello che un tempo Bersani chiamava “l’usato sicuro”, e che ora Renzi e Gentiloni chiamano “la forza tranquilla” del PD; e siccome, anzi, a parte il PD tutti sembrano giocare al “tanto peggio, tanto meglio”, senza preoccuparsi di indicare né la coalizione “vera” che potrà governare dopo il 4 marzo né gli obiettivi non fantasiosi da realizzare da allora, c’è poco da stare allegri. In altre epoche - quando capitavano scenari così, in cui grandi masse di cittadini provavano un forte disagio sociale ed esistenziale, mentre si succedevano governi deboli e non corrispondenti - per anni e anni - alla volontà espressa dagli elettori - arrivava la dittatura. Ora per fortuna la dittatura non arriva più perché Internet, i telefonini, Facebook, la TV fatta in casa e trasmissibile ovunque (che è per via), oltre alla crisi delle grandi ideologie e dell’antica divisione in classi, rendono molto difficile imporre un pensiero unico dall’alto. Manca persino il vero scontro tra visioni alternative del mondo, e relative fazioni con milioni di appassionati pronti a ogni sacrificio per esse: senza di che ogni cambio forzato di sistema – come il passaggio della democrazia alla dittatura o viceversa, pur di far vincere uno dei poli opposti - pare impossibile. Ormai i “post” sostituiscono i discorsi, il bla bla dei “talk show” i buoni libri, e persino i capi di stato grandi come gli Stati Uniti comunicano via twitter. E poi, grazie al cielo, si è ormai finalmente compreso che in democrazia non solo si è più liberi, ma si hanno sempre più beni di consumo che sotto la dittatura (anche operante a livelli di sviluppo e civiltà corrispondenti). La Cina ha sì dimostrato che all’ombra di una dittatura cosiddetta comunista è possibile realizzare un progresso capitalistico senza uguali, ma non certo che i lavoratori sono liberi e ricchi come nei paesi allo stesso livello di sviluppo “senza dittatura”.

   Ma in un mondo che ha ormai al centro l’uomo “qualunque”; in cui per TV quasi “chiunque”, dopo due o tre minuti, è interrotto dal conduttore (o conduttrice) perché altrimenti cadrebbe l’attenzione dei più; in un mondo in cui tutto è affidato a piccoli discorsi “di pancia”, nei casi in cui in altri tempi sarebbe arrivata la dittatura ora diventa possibile solo la “democratura”, ossia la dittatura all’ombra della democrazia: la dittatura che celebra i riti elettorali, ma in cui il governo, il potere esecutivo, comanda su tutto e tutti, riducendo i due altri poteri dello Stato liberale, ossia il potere legislativo e giudiziario, cioè il parlamento e la magistratura, a uno stuoino. La Russia di Putin è vicina, e la Turchia pure. Per ora da noi le cose sono molto diverse, ma se seguiteremo a non tenere in alcun conto il voto e la volontà dei cittadini per fare i governi “veri”, e ad ignorare o fingere di non vedere la delusione e il disprezzo di masse enormi di cittadini per i movimenti politici, e la rabbia di tanti giovani disoccupati e sottoccupati, e il bisogno di governi stabili e autorevoli, legittimati dal suffragio espresso e non tirati fuori dal cilindro come soluzioni eccezionali del prestigiatore che presiede una Repubblica, come andremo a finire? Quanto potrà ancora durare questa palese decadenza del Paese?

   Nel 1856 un grande pensatore politico liberale, Alexis de Tocqueville, s’interrogava, in “L’antico regime e la rivoluzione” - come già aveva fatto tra il 1835 e il 1840 nella “Democrazia in America” - sullo strano fenomeno della democrazia, sempre “en marche” dal 1789 (in America dal 1776). Questa democrazia - diceva in sostanza - era così forte che persino i suoi nemici alla fine di ogni ciclo risultavano elementi che l’avevano fatta espandere ulteriormente. In fondo è stato così anche con i totalitarismi del XX secolo. Ad esempio l’Italia rifondata dopo il 1945 è stata più democratica, e socialmente avanzata, di quanto fosse mai stata (anche al tempo del riformismo liberale di Giolitti). È stato così anche dopo la caduta del comunismo da Berlino a Vladivostock (1989/1991), tanto che un grande politologo americano, Francis Fukuyama, scrisse allora  “La fine della storia e l’ultimo uomo” (1992), teorizzando il prossimo raggiungimento - in una visione della storia non ciclica, ma lineare, ossia come freccia che va sempre avanti - del punto d’arrivo ritenuto insuperabile: la compresenza tra liberalismo democratico ed economia capitalistica propria dell’”American way of life”. In seguito il quadro, in presenza della grande sfida dei fondamentalismi - con particolare riferimento a quello islamico - è parso più mosso anche a Fukuyama. Tuttavia il punto d’arrivo - teorizzato allora da lui - trova pure grandi conferme, come i fenomeni di estrema diffusione (e frammentazione) dei poteri di decisione dei singoli, sol che si pensi a Internet, ai blog, al nostro stesso giornale on-line, a Facebook, alla possibilità di trasmettere ovunque persino film e discorsi, in una specie di Oceano delle informazioni e opinioni in cui nuotano tutti i pesci (squali e pirana compresi, ben inteso: non essendoci solo deliziosi delfini o poveri tonni nel grande mare). Come ci ha ben spiegato Mauro Calise nella “Democrazia del leader” (2016), anche parlandone in Alessandria per “Città Futura”, il tutto dà luogo a una forma inedita di democrazia (quella personalistica, del leader), ci piaccia o non ci piaccia: con la potenza più o meno oggettiva delle tendenze epocali universali. Da un lato la democrazia è più sicura che nel passato, nel senso che coartare in modo autoritario tutto questo dialogo infinito di tutti con tutti è sempre più difficile, e quasi velleitario; ma dall’altro viene a de-cadere ogni istituzione rappresentativa capace di mediare o filtrare o moderare o razionalizzare la volontà - anzi, le volontà - dei singoli. Tende a rinascere quel legame personale tra cittadini e potente di turno che credevamo morto nel Medioevo, alle origini dello Stato moderno (Stato che pretese e pretende sempre di essere, con la sua forza coercitiva e “in nome della legge”, al di sopra di tutti). Ma i nuovi potenti, pur disponendo di un potere personalistico, sono ancora più precari di quelli “feudali” o familistici del Medioevo (o antimoderni), perché nessuno può impedire alle volontà individuali, al tempo di Internet e delle comunicazioni di massa, di esprimersi, e per ciò stesso di mettersi in reciproco rapporto e di pesare. I capi più popolari, anzi, essendo soggetti a un consenso costantemente ridiscusso dai mandatari, sono di breve durata. Spesso sono spremuti come limoni, gettati via e persino prestissimo dimenticati dai cittadini, come abbiamo visto accadere a tanti esponenti importantissimi negli ultimi vent’anni circa. A livello nazionale e pure locale. Personaggi che avevano avuto ruoli importantissimi sono stati messi da parte e nessuno se ne ricorda nemmeno più. Mentre prima non capitava quasi mai.

   Ad esempio il Partito di Renzi ha potuto passare, anche grazie al “Capo”, dal 25% del 2013 al 40% delle elezioni europee e – secondo i sondaggi - al 22% o poco più di oggi. Insomma, sorgono sì capi del popolo sovrano e che a lui rispondono, strumentalizzando le istituzioni rappresentative, ma durano poco. “L’ultimo uomo” - l’ometto col telefonino-computer, l’uomo qualunque sovrano separato da tutti e a tutti connesso, mediocre come non mai e però potentissimo - li fa passare facilmente dalla polvere agli altari (e viceversa). Ma si può pure pensare a “capi” di più lunga durata, capaci di fiutare dove vada il vento dell’uomo-massa di giorno in giorno, e per ciò più durevoli. Probabilmente non è l’ultima carta importante di Berlusconi il suo essere uomo di spettacolo, che annusa subito quel che “il pubblico” vuole e ci lavora sopra. Gente così prima sonda i desiderata della folla e poi misura su di essi le proposte. Siccome però i cittadini non sono affatto stupidi, se si accorgono che le promesse sono totalmente disattese, ritirano la fiducia. E infatti Berlusconi in pochi anni è passato dal 37% al 16%.  E non avrebbe oggi nessuna chance di ripresa - invece vistosa - se non ricevesse un aiutino decisivo e costante dai suoi nemici della sinistra, che dividendosi tra loro fanno proprio il gioco della destra (come pure quello del M5S): per una specie di stranissimo masochismo storicamente determinato. Parlo, si capisce, della scissione tra PD e Movimento Democratico Progressista (ora in “Liberi e Uguali”). A mio parere questa frattura è stata ed è assolutamente dannosa, chiunque ne sia stato più responsabile scagliando la prima, o la seconda o terza pietra. Ma a me sembra palmare la responsabilità maggiore degli scissionisti. Il divorzio l’hanno deciso loro. Si fa di tutto per annullare un primato della sinistra di governo che invece senza quella frattura sarebbe palmare. Gli scissionisti pensano di recuperare voti già usciti dal PD e andati o che vanno all’astensione (e in ciò “Dio” li aiuti), ma è ben dubbio che un tal voto vada a una sinistra tradizionale invece che al M5S. Mettetevi nei panni di uno che abbia deciso di non andare a votare e poi torni a votare. Chi sceglierà tra Grillo e Bersani? Non dubito della buona fede di tanti compagni di questa sinistra, che io avrei voluto restassero nel PD, vorrei tornassero nel PD e che almeno si alleassero col PD, ma l’inferno è lastricato di buone intenzioni: la loro azione è dannosa alla sinistra. Secondo me alla fine risulterà che Liberi e Uguali avrà semplicemente abbassato in modo letale la percentuale del PD (oltre a mutarne in senso “centrista” la natura tramite l’uscita di tanti quadri di matrice di sinistra). Ed è proprio un peccato: non fosse altro perché il partito più votato avrà l’incarico di formare il governo. Ma è un peccato anche rispetto alla prassi di governo da Renzi a Gentiloni.

    Infatti abbiamo una sinistra – o cosiddetta sinistra - che ha governato per cinque anni. Il 23 gennaio, al proposito, ho ascoltato con sgomento il confronto televisivo a tre tra Bianca Berlinguer, Graziano Delrio e Massimo Cacciari. Con sgomento perché mi piacciono tutti e tre moltissimo. Tanti anni fa, nel 1993, ci fu persino un momento in cui sperai, e scrissi, che Cacciari avrebbe potuto diventare il leader di una nuova sinistra di governo democratica e riformatrice. Bianca Berlinguer, per parte sua, ha una professionalità giornalistica accresciuta da una simpatica umanità. E Delrio è per me “come Renzi”, ma senza i difetti di Renzi (e credo con una passione politica e civile superiore a quella di Gentiloni). Ma i due - Cacciari e Bianca Berlinguer - hanno fatto di tutto per costringere Delrio sulla difensiva. Essi sono di sinistra, ma l’effetto è stato certo quello di aiutare la destra, a un mese dalle elezioni. Come sempre a fini opposti. Secondo Cacciari il PD, a un mese dalle elezioni, dovrebbe coprirsi il capo di cenere, ammettere le colpe, non rivendicare quel che di buono ha fatto in cinque anni di governo, e dire quello che vorrà fare nei prossimi anni. E, soprattutto, ascoltare Cacciari, come se il non ascoltarlo volesse dire non ascoltare la voce della Storia. Delrio forse era stanco e anche rattristato, pur tenendo il punto. Altrimenti avrebbe potuto dirgli che se tu sei stato per cinque anni al governo, e hai fatto anche tante buone cose, le devi buttare sulla bilancia, perché i discorsi prospettici, sul “che fare?”, sono credibili - per una forza che abbia lungamente governato - solo sulla base di quelli retrospettivi, ossia di bilancio su quel che ha combinato e combina: bilancio che rende credibile o meno quel che farai o non farai in seguito. E qui c’è un punto chiave, perché di cose buone questo PD di governo, da Renzi a Gentiloni, ne ha fatte tante. Gli ottanta euro a dieci milioni di poveri, e per sempre, non sono certo stati uno scherzetto. E un milione di posti di lavoro in più, sia pure per metà a tempo determinato, non sono roba da poco (e se fosseroun derivato della congiuntura europea, il governo l’avrebbe almeno ben favorita). E il governo è stato al lavoro in tutti i punti di crisi. E ha dato nuovi diritti civili sin qui mai visti, come quelli alle coppie di fatto omosessuali ed eterosessuali o ai morenti. E ha ora in gran parte fermato pure gli immigrati clandestini, sia pure lasciando irrisolti problemi terribili in Libia, che saranno da affrontare, anche con l’Unione Europea e l’ONU. E si è fatto apprezzare da Obama alla Merkel, e dal socialismo democratico europeo e ora da Macron. Ha anche avuto un buon livello di moralità, comunque assolutamente non confrontabile con quello di innumerevoli statisti della prima Repubblica, per non parlare di quelli della seconda “della destra”, che tanto lavoro hanno dato e danno alle procure. Per incastrare Renzi hanno persino dovuto costruire, invano, carte false. Solo la faziosità cieca e calcolata non può cogliere la differenza enorme che passa tra atti magari inopportuni come quelli della ministra Boschi e veri crimini perseguiti dalla legge.

   Poi ci sono cose che mi danno una sensazione di “irrealtà” ulteriore: roba da “Sogno o son desto?”. Guardo i sondaggi e scopro che se il PD non fosse stato spaccato dagli eroici compagni D’Alema (la vera mente occulta dell’operazione) e consorti, intanto sarebbe senza ombra di dubbio il primo partito; poi, politicamente, sarebbe demo-socialista e non solo più “demo”. Questi qua, dopo averci rotto le scatole per mezzo secolo con “l’egemonia” teorizzata da Gramsci, hanno abbandonato il loro partito a dirigenti nazionali che all’80% sono di matrice democristiana (pur rimossa, ma fatta di un “rimosso” che senza l’altra matrice volendolo o meno torna a galla). E lo hanno fatto per fare il solito partitino del 5% (oggi del 6, o fosse pure 7, ma è la prima volta). Che dire? – Io non ho parole.

    Ho visto la rossa Liguria che in seguito a una lite tra un ex sindacalista che già non si era fatto amare come sindaco di Bologna, dopo mezzo secolo è finita in mano ad un centrodestra a impronta leghista.  Ho visto una sinistra che in Sicilia è corsa divisa facilitando la vittoria di un ex fascista storico alla presidenza della Regione. Vedo che in Lombardia c’è un candidato per la destra il quale parla di rischio per la “razza bianca, ma ciononostante la sinistra corre divisa, dopo che a Bergamo il candidato del PD, che ora corre per la Regione, era stato sostenuto pure da SEL; e se non erro lo fanno persino contro il parere della segretaria della CGIL. Da moltissimi anni in modo paradossale, con amici molto stretti, “per paradosso” andavo dicendo - prima di Renzi - che il problema della sinistra, dal 1993 in poi, era quello che era diretta da un gruppo di leader di corta visuale (usavo espressioni più colorite), che avrebbero perso in ogni situazione, o vinto solo in modo precario. Concordavo con quello che sin dalla metà degli anni Novanta aveva detto Nanni Moretti in una piazza di Roma: “Con questi capi perderete sempre”. Ma qui la realtà - come diceva Pirandello confrontando trame di suoi libri editi con fatti di cronaca successivi – supera l’immaginazione. Di nuovo con stupore noto che sembra si sia smarrito quello che Max Weber, nel 1918, in La politica come professione, considerava il punto chiave di ogni “vero” agire politico: l’etica della responsabilità, per cui si deve sempre agire tenendo d’occhio - salvo che in taluni casi di vita e di morte – le conseguenze “prevedibili” delle nostre opzioni sulla vita sociale. Se io facendo una certa scelta faccio vincere una destra che almeno al 50% è quella neonazionalista, apertamente lepenista e xenofoba, e se addirittura induco la gente a pensare che la vera partita sia tra Centrodestra e M5S, e non mi preoccupo, seguo con evidenza l’etica dell’irresponsabilità (anche se io avessi una motivazione nobilissima).

       Tra l’altro il centrodestra che prevarrebbe in caso di sconfitta della sinistra è, almeno a metà, formato da “lepenisti” dichiarati, che non potendo uscire subito dall’euro non rinunceranno di certo a indire un referendum – pur consultivo nel nostro ordinamento – per uscirne. E che comunque nell’Unione Europea e con la Banca Centrale Europea si muoveranno come elefanti nella cristalleria. Se ci fosse una seconda Brexit (un’Italexit), l’Unione Europea salterebbe per aria. Berlusconi è decisissimo a giocare la parte del democristiano di destra, determinato a restare sia nel Partito Popolare Europeo che nell’euro, perché conosce come va il mondo economico. Se vincesse il centrodestra – che per ora non ha affatto i numeri per vincere – egli imporrebbe la sua linea agli alleati; oppure li mollerebbe – anche se giura che non lo vuole perché ci sono le elezioni – patteggiando col PD. Ed è tale il terrore delle cancellerie europee che forze che metteranno in discussione Unione Europea e euro, di matrice “cinque stelle” e magari coi leghisti e i fratellini italiani al seguito, possano prevalere, che l’altro giorno Juncker, il presidente della Commissione Europea, a Bruxelles diceva a Berlusconi (il quale per ora è uno radiato dal Senato italiano): “Qui è casa tua”. A questo punto siamo.

   I sostenitori della competizione tra pretesa “vera sinistra” (Liberi e Uguali) e “falsa sinistra” (“nuovo centro”, PD renziano “democristiano”), sottolineano differenze vere, in specie nella politica del lavoro. Ma in concreto è difficile fare molto in tale ambito, profondamente condizionato vuoi dal macigno del debito pubblico e vuoi dalle norme sui bilanci dell’Unione Europea. Ma, soprattutto, “questi qui” non dicono neanche che nella nuova legislatura saranno la nuova opposizione di sinistra (e questo non lo condividerei, ma lo capirei benissimo, in una logica molto lavorista e di alternativa democratica di sinistra, il cui ideal-tipo è probabilmente Landini, che se il nostro grande Foa fosse vivo considererebbe come un figlio ideale del suo pensiero-prassi). Ma non è neanche così. D’Alema, che lì in mezzo è sempre la testa forte, con costernazione di una parte dei “suoi” (ma più perché quello “si fa, ma non si dice”), ha parlato già di “governo istituzionale”, ossia del solito governo tecnico stile Monti con maggioranza bipartisan (che poi in concreto poggerebbe solo su PD e Forza Italia, più qualche transfuga: ossia sarebbe la riedizione del renzismo, o meglio di quel che è attribuito al renzismo, ma - sai che differenza - senza Renzi). Questa prospettiva farebbe veramente il gioco del M5S; anzi, farebbe la sua fortuna definitiva (roba da maggioranza assoluta): perché gli italiani, che dal 2011 non hanno più avuto un governo corrispondente alle loro scelte di voto, si disamorerebbero ulteriormente della democrazia. Già ci sono sondaggi che dicono che il 70% vedrebbe bene un “uomo forte” al comando (anche se resta un “personaggio in cerca d’autore”). Lo scenario potrebbe essere più vicino di quel che si pensi, anche se per fortuna chi potrebbe impersonare la parte, e lo vorrebbe pure, non sembra essere all’altezza del compito.

   Può darsi che la mia preoccupazione sia eccessiva (e in tal caso “tanto meglio”). Può darsi che il primo partito la sera del 4 marzo sarà il PD, e allora, “partendo, o ri-partendo, da Gentiloni”, tireremo un sospiro di sollievo. Ma per ora è più facile che il primo partito sia il M5S. Non è affatto fatto di gente politicamente detestabile, ma è chiaramente formato, anche ai massimi livelli, da gente allo sbando, che è totalmente inadeguata, meno capace e preparata dei capi di “Lotta continua” dimezzo secolo fa o poco meno. Eppure l’ironia della Storia potrebbe, assestando un gran calcio come un mulo arrabbiato, portare al potere Di Maio. Questo “movimento” farà molti giochi per mostrare che accetta convergenze, ma non alleanze (senza riuscirci affatto, come non ci riuscì Bersani nel 2013 con il M5S: perché solo degli sprovveduti possono pensare che il nemico storico fondamentale di ieri, dalla sera alla mattina, possa diventare l’alleato di domani, come potevano fare Hitler o Stalin col potere assoluto e terroristico in mano). L’apporto di Liberi e Uguali, col suo 6% o giù di lì, non basterà affatto a un M5S primo partito. Allora diventerà molto probabile – nonostante le convulsioni interne che ciò provocherebbe nel M5S, che tuttavia col potere dietro l’angolo, e le sirene connesse, si stemperano – un’alleanza o blocco o convergenza – ma se non è zuppa è pan bagnato – tra M5S, Lega di Salvini (che già ci sta) e Fratelli d’Italia (che non potrebbe non starci). Questa sarebbe l’alleanza che, durando, potrebbe generare non si sa che “ircocervo” politico, tra i populismi, che puntano al governo forte, per diretta investitura popolare, poco importa se nel nome di Rousseau o non so di chi. Sarebbe certo un dramma perché ci porterebbero, persino se i populisti di lotta e di governo uniti nella lotta non lo volessero, o un po’ lo volessero e un po’ no, prima contro e poi fuori dall’Unione Europea, con la nostra liretta e il nostro monte bianco di debiti a competere sul mercato mondiale globalizzato. La logica stessa spingerà allora a un forte presidenzialismo semiautoritario. Così, come già tra Craxi e Berlusconi, invece di avere un premierato con Renzi avremo un bel regime di tipo sudamericano con Di Maio o Di Maio-Salvini a Palazzo Chigi. Questo tipo di “democratura” (democrazia + dittatura) c’è già nella Russia di Putin e nella Turchia di Erdogan. E secondo molti studiosi - tra cui ora Federico Finchelstein in “From Fascism to Populism” (University of California Press, 2018, ma v. “La lettura”, 21 febbraio 2018), sarebbe quel che sta nella pancia del “demos” di quest’epoca in molti punti del pianeta: un assetto dittatoriale che conserva la parvenza della democrazia facendo regolarmente votare il popolo sovrano, che mantiene il suo parlamento.

   Magari “per ora” non accadrà. Potrà accadere più avanti. Ma prevenire, cari compagni, non è meglio che curare? Perché rischiare?

                                                       (franco.livorsi@alice.it)  

 

 

25/01/2018 16:58:35
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