Siamo tutti fortemente colpiti dal
fenomeno sconvolgente del fondamentalismo islamico. Ma questo è solo il più
eclatante tra gli estremismi “religiosi” del nostro tempo. Per intenderlo può
essere utile spendere qualche parola sul ruolo della religiosità nella storia. Questa
dimensione, come forza di determinazione dei grandi accadimenti epocali, ha
fatto spesso la parte della Cenerentola nella storiografia, specie dal XVIII
secolo in poi. In quel secolo, “illuminista”,
infatti, giunse al culmine la grande crisi della concezione cristiana del mondo,
negata in sé o intesa come una mera predicazione moraleggiante. L’evoluzione
della scienza e della tecnica sembrava condannare la religione, in sé e per sé,
al ruolo di ipotesi inutile. Tanto più che in tutta l’area dei paesi latini,
con particolare riferimento alla Francia, in quella stagione - che pure era di
grandi mutamenti - non era possibile liquidare il parassitismo nobiliare (del
“primo stato”) senza eliminare quello del clero (secondo “stato”), alleato del
primo, e del coevo assolutismo cattolico, dappertutto, sin dall’epoca della
Controriforma, se non addirittura dalle origini della monarchia. Quindi
l’attacco della borghesia macro o microcapitalista emergente prima della
Rivoluzione francese - dal proprietario terriero o d’officina al professionista
e all’artigiano - doveva colpire non solo l’aristocrazia, ma anche il clero, che
con i suoi “sacerdoti” da tanti secoli aveva il monopolio del Sacro, all’ombra dello
Stato assoluto. E - per ciò stesso - l’attacco doveva minare il cristianesimo
in quanto tale (ovviamente difficilmente separabile dal clero - tanto più
allora – quantomeno in area cattolica). Gli illuministi, anteriori alla
Rivoluzione francese (secondo storici recenti avvenuta anche a loro danno),
erano gente con la testa sul collo, almeno finché riuscirono a non farsela
decollare da giacobini “arrabbiati”, come capitò all’unico tra i primi dell’area
che fosse ancora vivo nel 1789 e avesse partecipato a quel grande evento
(Condorcet). Essi comprendevano che abolire Dio non era uno scherzetto. Per
questo Voltaire da un lato invitava tutti a écraser
l’infâme,
che per lui era la chiesa cattolica, ma anche il cristianesimo stesso almeno
nella forma prevalsa nella storia; dall’altro diceva che “se Dio non ci fosse
bisognerebbe inventarlo”. Era cioè deista, come tanta parte dell’illuminismo:
credeva in un Dio unico, razionale, creatore dell’universo e fondamento della
legge morale universalmente umana. Sulla base di questa separazione tra il
sapere scientifico e la fede, e del terzo stato (borghesia) non solo dal primo stato
(aristocrazia), ma anche dal secondo (clero), ci furono pure tentativi di
fondare una religione post-cristiana, puramente deista, della natura e
umanitaria. Furono caratteristici della Massoneria, nata “storicamente” in
Inghilterra il 24 giugno 1717, anche se pretendeva e pretende di trasmettere un
sapere segreto, che sarebbe stato e sarebbe ininterrottamente mantenuto e
trasmesso di generazione in generazione, risalente ai misteri di Iside (e
successivi), e proprio dei “muratori” (maçons)
costruttori di piramidi, e poi cattedrali, e di quant’altro di secolo in secolo. Oggi
quella forma religiosa può apparire quantomeno bizzarra, ma un genio assoluto
come Mozart mise in musica, con libretto di Schikaneder, un mito immortale in
cui quella setta, col suo sovrano, è al centro della rinascita del principe
come del povero: Il flauto magico
(1791). Questi tentativi neo-religiosi, massonici e non, culminarono nell’estrema
battaglia di Robespierre, volta a istituire un culto dell’”essere supremo”: una
battaglia ideale che coincidendo con la crisi del giacobinismo e con l’avvento
del Termidoro suscitò lo scherno dei deputati dell’Assemblea nazionale, alla
vigilia della decapitazione del grande leader rivoluzionario. Ormai, sconfitti
i propositi regalisti d’invasione della Francia rivoluzionaria - passata anzi
all’attacco delle potenze straniere “reazionarie” - emergeva la borghesia effettivamente
vittoriosa, nella sua ala centrale edonista e materialista. In seguito ci fu il
compromesso di Napoleone col papa, che però non rivitalizzò di certo la fede,
vista come instrumentum regni, tanto
che si può affermare che “l’imperatore” non garantiva alla chiesa nessun’autonomia
o privilegio speciale. In seguito al crollo di Napoleone nell’Europa
“continentale” ci furono, nella Restaurazione, e nel coevo Romanticismo - nato un
poco prima, ma allora trionfante - due linee, che talora cercarono di
convergere e talora no: l’una di ritorno indietro, “reazionaria”, volta a
ripristinare la storica alleanza - propria del vecchio assolutismo - tra trono
e altare, caratteristica di de Maistre ma anche - il che più contava -
dell’Austria di Metternich e dello zar Alessandro I Romanov (Santa Alleanza);
l’altra di conciliazione tra Modernità e tradizione, tra immanentismo e
religiosità, che fu caratteristica del germanesimo, e in specie della grandiosa
sintesi filosofica dell’idealismo propria
di Hegel. Questi in sostanza vedeva il Logos come Dio, ma Lo diceva, per noi e
in noi, immanente, vivo alla “prima radice” infinitamente pensante dell’uomo, e
da essa indistinguibile o comunque ad essa identico.
Tuttavia dal 1830 in
poi la Reazione fu travolta, a partire da una piccola rivoluzione monarchico
liberale nella Francia del 1830. E a partire dalla Germania, in un decennio,
cadde pure la diga volta a umanizzare il divino e a divinizzare l’umano, e ad
elevare a tale altezza la comunità umana dei cittadini, eretta da Hegel (seppure
in una visione troppo schiacciata sullo Stato “forte” prussiano); ed
emerse, per contro - mentre il capitalismo moderno correva al gran galoppo - il
materialismo etico, scientifico, filosofico e insomma generale proprio di tanta
parte del XIX secolo, e che va per così dire da Marx (che si laurea nel 1841)
sino a Freud (con cui si chiudeva il secolo), e giunge pressoché trionfante,
dopo molte vicissitudini, sino ai giorni nostri.
Ora in tutta la fase indicata, dal XVIII secolo in poi - pur con i rigurgiti
del passato e con i tentativi di cui si è detto - l’attacco al cristianesimo, e
anche alle religioni in generale, è stato (ed è) una costante. Questo ha pure
rimosso, nella storiografia, il ruolo delle religioni, e anche della religiosità
stessa, nella storia, che è stato visto o come negativo, oppure
negato e considerato come mero paravento di altri obiettivi e interessi di
potere (o soldi); o al più è stato considerato secondario. Ma invece - sebbene
sempre legato “ad altro”, anche perché nella storia “tout se tient” - era decisivo, tanto che dalla caduta del
paganesimo alla rivoluzione inglese della metà del XVII secolo, e alla prima
colonizzazione decisiva degli Stati Uniti da parte di calvinisti puritani,
tutte le rivoluzioni sono state religiose. Hegel stesso aveva affermato con
decisione - anche se questa sua grandiosa elaborazione fu presto rimossa - che
i mutamenti della - o nella - religione sono la forza dinamica della storia
(per lui come spirito dello Stato, il che per noi è ovviamente inaccettabile), tanto
che persino la famosa affermazione secondo cui la storia culminerebbe nel
primato del germanesimo, se letta cum
grano salis sta a significare che la “Storia” culminerebbe nel “protestantesimo”
(detto tutto “germanico”, nel nord Europa come in Inghilterra o America del
nord). Con esso, infatti, “Dio” sarebbe svelato non già da un’istituzione
pretesa salvifica, come la chiesa cattolica, ma “dalla” coscienza (e per Hegel
“nella” coscienza, risultando “della” coscienza, giunta alla - o svelatasi come
- ”autocoscienza”).
Tuttavia l’idealismo hegeliano -
oltre che ogni fede cristiana in senso forte, “rimossa” da liberali
progressisti, repubblicani, radicali e socialisti - fu travolto nel decennio
anteriore al 1848 europeo (dalla sinistra hegeliana e da Marx). Il materialismo
assolutamente vincente dagli anni Quaranta del XIX secolo in poi era molto
connesso agli entusiasmi per il cosiddetto “progresso” capitalistico inarrestabile:
entusiasmi che delle scienze “positive”, sperimentali, facevano una fede (“positivismo”).
Era certo pure legato allo spirito edonistico della borghesia trionfante. Ma
questa “fede” nel potere assoluto della scienza e della tecnica, contro ogni
religiosità o soggettività, aveva coinvolto pure il proletariato urbano, in
odio antico verso i preti e per l’influenza stessa della cultura della classe
dominante, che è spesso - come spiega proprio Marx (per lui prima della rivoluzione ulteriore) -
la cultura dominante.
Va però notato che nel campo più disagiato, dentro il capitalismo
trionfante, la faccenda assumeva una strana torsione. Infatti l’idea di Marx dell’emancipazione
proletaria ed umana, rivolta contro il capitalismo, era, suo malgrado - come
poi il movimento coevo del socialismo e del comunismo - carica di religiosità.
Vi si proiettava l’istanza della “vita beata” già colta da Kant al culmine
della vita morale individuale; ma ora
il bisogno di una “vita beata” era trasferito - non già in base a Kant, ma
sulla traccia di un Hegel “rovesciato di segno” - nella dimensione
sociopolitica, che avrebbe dovuto essere assolutamente buona e assolutamente
felice per tutti. Il paradiso proiettato fuori dall’interiorità, nel mondo, per
Marx e per i marxisti era però “da fare”, come assetto in cui tutto tornasse di
tutti, non ci fosse più moneta, e neppure Stato. Sarebbe “necessariamente”
accaduto per il tramite del potere del proletariato, inteso sin dall’inizio
come “Stato che si estingue”, ossia si scioglie gradualmente, come un blocco di
ghiaccio al sole (“dell’avvenire”), dal primo giorno dell’assetto dominato dai
proletari: si fonde nella società, che l’aveva generato quando un 5000 anni fa erano
sorte classi diverse ed opposte, ora divenute soprattutto borghesia e
proletariato. L’assetto “contro natura”, che ci vede l’un l’altro, e tra
classi, divisi e opposti, sarebbe appunto via via sparito, man mano che le
differenze di classe fossero state cancellate davvero, tramite il potere dei
senza potere, i proletari, che possono smettere di dipendere solo abolendo la
dipendenza e le connesse differenze “economiche”. Questo in Marx è
evidentissimo già nella Critica della
filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione (1844), nei Manoscritti economico-filosofici del
1844 e poi negli scritti sulla Comune del 1871 e contro Lassalle del 1875, ma
anche in Stato e rivoluzione (1917 ma
1918) di Lenin, e in tutto quello che Lenin disse in quegli anni specie tra il
1917 e il 1920. Più oltre questi
progetti palingenetici, di effettiva redenzione sociale, fallirono: accadesse
ciò per qualcosa di “storto” che c’è nella natura umana, o per la mancata
rivoluzione in Occidente, e il connesso isolamento economico e militare della
Russia rivoluzionaria, o per le tragedie della necessaria industrializzazione a
tappe accelerate, o per l’atroce collettivizzazione forzata dell’agricoltura,
la quale ultima - a mio parere - fu una vera e propria seconda rivoluzione
“dall’alto”, che intorno al 1929 trasformò, in Russia e nel mondo che via via
la emulò in seguito, il regime comunista in un capitalismo di stato governato
autoritariamente da un solo Partito Comunista e monolitico, proclamantesi
incarnazione del proletariato anche quando questo, come in certe fasi o Paesi,
lo odiava (mentre era solo una burocrazia “di sinistra” che si prendeva tutto
il potere, pretendendo e spesso credendo di farlo per il proletariato, mentre
lo faceva soprattutto per sé). E
tuttavia la clericalizzazione autoritaria in questione non ripudiò il progetto
originario, pure ormai ridotto a flatus
vocis buona per entusiasmare ragazzini “marxisti” sognanti e infelici. La
“religione” della salvezza dei proletari si era trasformata in una sorta di ecclesia totalitaria, al di fuori della
quale per il compagno non ci sarebbe stata “nulla
salus”. Perciò il geniale Bertrand Russell, sin dagli anni Venti, fu
colpito dalla grande somiglianza tra il comunismo mondiale e il cattolicesimo
romano, con Stalin al posto del papa, i segretari dei partiti come cardinali, e
le legioni di funzionari comunisti del mondo come preti, e i connessi dogmi e
stili di vita. Il punto che vorrei
enfatizzare è che da un certo punto in poi questa “religione senza dio” del
comunismo (per non parlare di quella fascista, neopagana e dell’imperatore
“divino”, travolta nel 1945),
implose letteralmente, tra il 1989 e il 1991. Fu una cosa veramente
straordinaria nella storia del mondo: un impero eretto in seguito a una guerra
mondiale, difensiva, in cui l’Unione Sovietica aveva avuto venti milioni di
morti e che si era esteso da Vladivostock a Berlino, cadde come una mela marcia
o un vecchietto infartato. Nessun grande impero della storia era mai finito
così. Il comunismo, come idea di liberazione totale - ben diversa dal collettivismo
autoritario e burocratico - era morto come minimo tra ’26 e ’29, ma nella sua
forma definitiva di collettivismo burocratico autoritario (di Stato e Partito),
“fondata” da Stalin e poi solo depurata dal terrorismo di stato, era durato
sino al crollo del muro di Berlino del 1989 e a quello dell’URSS del 1991. Come
il crollo dell’assolutismo “cattolico” del 1789 e anni seguenti aveva minato il
cristianesimo stesso, via via “estinto” sino alla “morte di Dio” in Occidente (quantomeno
come Dio “davvero vivo” nella coscienza delle moltitudini “urbane”), così il
crollo del comunismo da Berlino a Vladivostock rese residuale il materialismo
marxista (la religione senza Dio del comunismo). Siccome questo – come notato
da Jung - celava nel seno un potente mito “religioso” di redenzione sociale, la
totale perdita di credibilità della forma “profana” della religiosità, ossia
del paradiso in terra o comunque della religione secolarizzata, ha di colpo
riabilitato la coscienza religiosa in senso stretto. Il dio che si era preteso
di trasfondere in una nuova umanità tornava ad essere quello “nell’alto dei
cieli”, trascendente, con logico “rinculo”, o rivolta reazionaria, della storia
(in mancanza di meglio). Naturalmente solo per la parte che aneli a un qualche
cambiamento totale, in cui - scomparsa la forma materialistica che aveva
occultato la religiosità - questa emerge - come motivazione per cambiare le
cose - nella sua forma specifica, spirituale, che aveva avuto sino a
Robespierre. Nella parte invece più ben inserita nel sistema è seguitato
l’anteriore materialismo borghese, non solo come cultura di gran lunga
prevalente, ma anche come stile di vita, o American
way of life, che dopo il crollo dell’URSS - secondo taluni grandi
politologi come Fukuyama, che
poi pare abbia cambiato idea - sembrava dover ormai diventare il senso comune
di tutto il pianeta. Ma siccome lo spirito del capitalismo trionfato seguita ad
escludere dal suo volgare ma incantatore festino, e connesso materialismo
morale (oltre che “razionale”), miliardi di persone, lo spirito della
rivoluzione - pur dopo un’immane disfatta - ha seguitato a lavorare. Non avendo
un futuro credibile e creduto, come sempre è riemerso come “futurismo del
passato”. Credo che l’istanza rivoluzionaria sia una modalità antropologica, che
vede la romantica “struggente nostalgia dell’infinito”, e di una connessa felicità
“incondizionata” (e viceversa), come a priori, ossia come qualcosa di latente
in noi per natura; ma a parte ciò è comprensibile che chi stia veramente male -
per ragioni economiche, o anche solo psicologiche, alias di forte disadattamento
esistenziale - non possa acconciarsi allo stato di cose di gran lunga vincente.
In lui l’istanza, sempre religiosa, della redenzione, ritorna sempre. Oggi,
crollato il guscio materialista che l’aveva racchiusa dagli anni Quaranta del
XIX secolo in poi (e nella “borghesia” dal 1789), l’istanza si presenta “nuda”,
ossia nella sua forma religiosa aperta, che aveva già avuto da Cristo alla fine
del XVII secolo, e per certi versi sino al 1793, almeno tra le forze della
rivolta.
Tuttavia la religiosità, come la rivoluzione, e come ogni nostro mito
vivo collettivo e persino individuale, può presentarsi in avanti o
all’indietro. Non stiamo mai fermi psichicamente: o ci evolviamo o ci
involviamo (salvo forse i mistici puri, che vivono in un loro presente in cui
il divino irromperebbe, ma che sono necessariamente pochissimi). Quasi tutti
gli umani o si buttano avanti o si buttano indietro. Così la religione, se non
riesce a assumere un volto “in avanti”, invece di scomparire lo assume
all’indietro. E’ accaduto con la Santa Alleanza e con i reazionari dopo la
Rivoluzione francese e il suo figlio - pur “degenere” rispetto agli originari
ideali “repubblicani” - Napoleone; e accade oggi tramite i fondamentalismi, che
sono in molte aree la reazione-restaurazione dopo la rivoluzione o pseudo-rivoluzione
“rossa”.
Nel vuoto di una religiosità rivoluzionaria o davvero riformatrice, se
ne afferma una reazionaria o molto conservatrice. Insomma, si torna indietro.
Come avevano cercato di fare Metternich e lo zar Alessandro I Romanov, ma pure
de Maistre. Ora accade con un altro
passato, ma sempre con approccio neo-reazionario. La Reazione s’insedia
proprio dove la Rivoluzione anteriore, la nuova “religiosità” (nel marxismo e
comunismo paradossalmente senza Dio) si erano affermate. Il processo è mondiale
e concerne tutte le religioni, forse persino l’induismo (ma il politeismo ha
anticorpi contro il fondamentalismo, pur emergente, perché è pluralistico intrinsecamente;
nei monoteismi il fenomeno, invece, furoreggia).
Vale in tutti e tre i monoteismi, anche se l’attuale papa Francesco sta
cercando con tutte le forze di attuare una grande correzione di rotta di tipo riformista
nella sua chiesa. E tuttavia da Giovanni Paolo II a Ratzinger abbiamo visto tutto
un ritorno alla tradizione cattolica del passato, volto a minimizzare invece
che ampliare gli esiti riformisti del concilio Vaticano II concluso nel 1963. E
la chiesa cattolica concede il meno possibile a un mondo moderno che sente
altro da sé, come se fosse assediata sul terreno - decisivo per essa - di dogmi
e principi millenari di tipo morale e spirituale: credenze “forti” che essa consente
ai singoli di tradire, accettando di buon grado di assolvere i peccatori
“pentiti”, ma senza ammettere mai che vengano meno principi che essa considera
al tempo stesso legati al suo Credo religioso e ad una morale “naturale”
pretesa perenne e razionale, vista in termini di aristotelismo cristianizzato
(tomista). Perciò ha lottato e lotta contro la dissolubilità del matrimonio,
l’aborto, i nuovi tipi di famiglia, l’eutanasia, eccetera. Cerca di
controbilanciare la forte “inattualità” storica di tutto ciò da un lato
ampliando la propria disponibilità ad assolvere i peccatori (ma non “i
peccati”), e dall’altro aprendosi, con orientamento non nuovo - ma pur sempre
notevole, se durerà - alle grandi masse povere colpite dal capitalismo
“selvaggio”, specie nelle zone arretrate del pianeta, ma anche tra noi: masse che
la Chiesa cattolica cerca molto meritoriamente di aiutare, e anche di
rappresentare sul terreno sociale, benché con esiti limitati perché tutta la
dottrina e composizione sociale della chiesa spingono alla conciliazione tra le
classi, e non certo al pauperismo rivoluzionario o comunque decisamente
riformatore in senso post-capitalista.
Anche
l’ebraismo tende a chiudersi a riccio, a partire dal suo “Stato del Vaticano”,
che per esso è lo Stato di Israele (la sua “Gerusalemme”), i cui governanti
mescolano molto il sacro e il profano, in senso quasi etno-teocratico, pretendendo
di imporre ai palestinesi una specie di apartheid, che prima o poi salterà per
aria, con conseguenze imprevedibili. Purtroppo il fondamentalismo allontana la
sola prospettiva ragionevole, o di due Stati, uno israeliano e l’altro
palestinese confederati, o almeno di uno Stato totalmente laico in cui sia bandito
ogni criterio di appartenenza religiosa o etnica, vuoi ebraico e vuoi
musulmano, e naturalmente ogni immigrazione motivata in termini
etnico-religiosi tanto all’interno quanto dall’esterno sia interrotta per sempre.
Ma accadrà mai? E se non accadrà, che accadrà?
Infine c’è il furoreggiante islamismo. Proprio lo scacco di tutte le
aree musulmane già d’influenza sovietica o amiche dell’URSS, in cui si erano
imposti regimi laici di preteso socialismo arabo, ha aperto una crisi
devastante. Questa si è verificata dapprima in Afghanistan, negli ultimi anni
dell’URSS, i cui governi fantoccio laici furono attaccati dal 1979 in poi da mujaheddin,
che erano già fondamentalisti musulmani, tra cui c’era Bin Laden: fondamentalisti
allora fomentati dall’America, e il cui trionfo, nel 1987, ha aperto la strada,
in un Paese montuoso molto arretrato, a un tremendo ritorno di Medioevo
islamico, formalmente vinto ma mai domo, e che ha fatto scuola a tutti i
peggiori fondamentalismi terroristici successivi. Più oltre è stato il caso
prima dell’Iraq e poi della Siria, zone vitali per l’equilibrio generale. Più
oltre ancora è stata la volta della Libia di Gheddafi, il cui rovesciamento ha
di nuovo rafforzato il fondamentalismo islamico “armato”. Certo in tutte queste
aree la complessa strategia del domino occidentale, con i ben connessi
interessi petroliferi, ha avuto immense responsabilità; ma è caratteristico il
fatto che tolto il tappo del socialismo reale “pan-sovietico” oppure del
nazionalismo di sinistra protetto dall’URSS, sia emerso quasi sempre il fondamentalismo
religioso musulmano (armato). Se salta la rivoluzione “di sinistra”, di ottima
o buona o anche cattiva qualità, che è una sorta di movimento salvifico senza
Dio (o che comunque ha effetti di modernizzazione niente affatto sordi alla
sorte della “povera gente”), e non arriva un nuovo movimento salvifico
religioso o rivoluzionario o riformatore, emerge la reazione fondamentalista,
che può pure attrarre grandi masse in miseria, anche perché nei paesi in cui
esse sono la grande maggioranza l’ala moderatamente laica e filo-occidentale è
spesso inetta e corrotta, non credibile per esse. Ciò naturalmente ritarda
l’autoriforma in senso “liberale” dell’Islam, autoriforma resa per altro difficile
dalla fede in un libro detto non solo “ispirato” da Dio, come la Bibbia, ma da
lui stesso “dettato”, scritto alla seconda persona singolare, e che nel VII
secolo era avanzatissimo, ma oggi, specie in materia di concezione della donna,
è gravemente “inattuale”: il Corano.
Tuttavia se fosse in campo una soluzione “avanzata”, il fondamentalismo non ci
sarebbe, come non c’era affatto stato in altri periodi, vicini e lontani, in
cui i tratti alto medievali erano stati bellamente ignorati, e l’Islam non era
affatto stato meno accogliente delle altre religioni. Ma qui non ragiono per
“mettere le brache alla storia”, come avrebbe detto Marx. Prendo atto dello
stato delle cose e cerco di prevedere qualche sviluppo.
In conclusione per ora assistiamo, in materia, alla compresenza di due
fenomeni.
Il primo fenomeno è caratterizzato dalla prevalenza di un modello
capitalista occidentale, materialista integrale, edonista in sommo grado e tutto
ripiegato sul mondo com’è, egoista sin nelle più intime fibre, adoratore del
dio denaro. Accade all’ombra di istituzioni per ora liberaldemocratiche, ma
sempre più degenerate, e “con le mani legate”, anche perché la globalizzazione
economica insidia tutte le forme keynesiane di Welfare State, in un mondo unificato
in cui la forza lavoro perde valore. Nello stesso ambito “ultracapitalistico”,
che o non crede più in alcun Dio o vive come se non ci credesse affatto (il che
è poi lo stesso o peggio), sussistono forme di religiosità moderata “vive ed
operanti”; ma contano sempre di meno nella storia globale. Nella parte
effettivamente “partecipe” alla religiosità, sono minoranze, neppure tanto
vaste, in tutti i paesi avanzati (salvo che in America, per la quale
occorrerebbe un discorso a parte).
Il secondo fenomeno è il ritorno - in mancanza di un’alternativa
“religiosa” avanzata, capace di interpretare le grandi forze latenti del
mutamento rivoluzionario o riformatore - di una religiosità del passato, “reazionaria”,
fondamentalista, che attrae soprattutto masse oppresse impossibilitate a
integrarsi nel “modello” di capitalismo selvaggio ormai dominante, e per ciò attratte
da forme religiose morte, che talune minoranze cercano di risvegliare e far
rivivere, in buona fede e anche strumentalmente (come sempre accade alle grandi
idee nella storia).
La partita sembra dunque giocarsi tra sostenitori dello status quo più
sciaguratamente materialista e egoista, “borghese”, ed i fondamentalismi
religiosi (spesso congiunti, purtroppo, con rigurgiti pericolosi di nazionalismo,
che potrebbero preludere a nuove forme di fascismo).
Pur riconoscendo che logiche del meno peggio, garanti di governabilità
democratica in un mondo anomico, hanno senso, in attesa di soluzioni
effettivamente alternative, si può riconoscere che hanno una portata limitata.
Per risolvere l’aporia tra i due poli di cui si è detto, occorrerebbe un terzo
polo capace di unire una nuova religiosità alle istanze di rinascita morale,
sociale ed ecologica delle masse oppresse, che pure sono fortissime. Non si può
dire che questo terzo polo non esista nel passato e presente della sinistra, vuoi
nelle idee e vuoi nella prassi, sol che si pensi non solo a figure decisive
nella storia come Gandhi, ma pure come il repubblicano democratico sociale,
cooperativista e neoreligioso Mazzini, o come i liberalsocialisti più
idealisticamente, eticamente e religiosamente motivati come Guido Calogero e
soprattutto Aldo Capitini e, sul terreno di un ecologismo “scientifico”, ma
pure spirituale e sociale, come Fritjof Capra. Istanze del genere sono e
sarebbero decisive, ma in Occidente, e ancor più in Italia, sono, e
probabilmente resteranno a lungo, molto minoritarie: sia per la potenza delle
attitudini opposte di cui si è detto (“ultramaterialiste” o “ultrareazionarie”),
sia perché agiscono “in ordine sparso”, e sia perché tardano a coagularsi in correnti
ideali unitarie e in movimenti politici e spirituali di portata epocale.
Se tale scarto tra idee e forze ultracapitaliste o reazionarie,
rozzamente materialiste oppure fondamentaliste, dovesse seguitare, gli esiti
catastrofici - o per il marcire graduale del modello occidentale e americano
dominante, o per esplosione di contraddizioni economiche e di contrasti
interstatali sempre più gravi e irrisolti da superpotenze che sono tutte in
grave crisi e come estenuate - purtroppo saranno possibili. Non sono
inevitabili, ma man mano che i nodi irrisolti aumentano, i pericoli di
catastrofe si accrescono. Il Kali Yuga,
l’epoca delle distruzioni apocalittiche, non è per nulla fatale, ma solo se
quelle che ora sono piccole isole di una nuova civiltà in cammino - nel segno
della rinascita psicologica e spirituale, ecologica, sociale, democratica e
comunitaria - riusciranno a dilagare nei continenti. Accadrà nei prossimi
decenni? “Quien sabe?”