Capitolo IV
Ad Aquae, la ricorrenza dell`Assunta assumeva un carattere particolare. Oltre a glorificare la Beata Vergine, infatti, essa segnava il momento del passaggio fra l`estate che stava finendo e l`inverno che arrivava. In quelle zone di mezzo, non più pianura e non ancora montagna, le stagioni prendevano un ritmo incalzante. Per questo l`Assunta rappresentava anche un`occasione di bilanci, il periodo in cui ognuno faceva il conto di ciò che aveva raccolto, in previsione del lungo freddo che stava per venire.
Negli anni buoni l`Assunta era una festa. La città apriva le sue porte e i contadini si mettevano a nuovo per invadere le strade coi carretti. Allora, la piazza delle terme si trasformava in una grande fiera: arrivavano musici, indovini e saltimbanchi, mentre sugli usci delle taverne donne imbellettate adescavano i passanti.
Quell`anno, invece, la festa dell`Assunta era tutta concentrata nelle chiese. Dalle campagne arrivavano soltanto profughi e le porte della città restavano sprangate anche di giorno, come le taverne. I conti erano magri un po` per tutti, ma nessuno si preoccupava dell`inverno perché molti dubitavano di arrivarci vivi.
Come sempre avviene in questi casi, l`unico conforto era la fede. Dalla prima al vespro, ogni chiesa di Aquae e ogni cappella erano gremite di gente che pregava e si prostrava di fronte alle sante immagini. Cappellani, canonici e presbiteri correvano in su e in giù dall`alba al tramonto, tutti presi a celebrar messe, recitare giaculatorie e dare conforto ai penitenti.
Una cosa, soprattutto, occupava i pensieri degli Aquesi: la grande processione che avrebbe portato in salvo gli arredi di san Pietro. Da quando gli araldi ne avevano dato il solenne annuncio, non c’era anima viva in città che avesse resistito alla tentazione di andare a vedere di persona. Poi, man mano che si avvicinava il momento, l’eccitazione crebbe finché, il mattino dell’Assunta, si era riunita così tanta gente che lo spiazzo davanti alla chiesa, per quanto grande, non bastava a contenerla tutta.
Fu in quell`atmosfera da giudizio universale che Aleramo arrivò per partecipare alla funzione. Per l`occasione si era abbigliato come conveniva al suo rango, con un largo cappello di feltro cremisi e una casacca di velluto del medesimo colore, sotto la quale spuntava il candido ricamo di una camicia in lino. Al fianco, il cinturone di cuoio grezzo tratteneva il fodero, che batteva sulle lunghe gambe strette nei gambali. Dal fodero spuntava l`elsa della spada.
Suo padre, dopo aver visto che, da ragazzo, superava di tutta la testa i compagni, l`aveva fatta forgiare più lunga del solito, apposta per lui. Il giorno prima di lasciarlo andare per il mondo, gliel’aveva mostrata in gran segreto, estraendola dal fodero e sollevandola verso il cielo. La luce del sole aveva strappato un riflesso abbagliante alla lama, suscitando un mormorio di stupore da parte di Aleramo, che l’ammirava estasiato.
Guglielmo gli aveva spiegato che veniva da lontano, forgiata dagli stessi mantici che avevano dato vita alle spade di grandi re. Quindi gliel’aveva affidata perché potesse prendere confidenza con l’arma e saggiarne il peso. – Prendila – aveva detto con aria solenne. – Essa fa parte del mondo che ha visto la nascita della nostra casa. Ricordalo e abbine buona cura. Lei farà lo stesso con te.
Aleramo aveva ascoltato più volte la storia della sua famiglia e delle sue nobili origini. Però, non aveva mai visto quei luoghi e i suoi piedi non avevano mai calpestato la terra dei suoi avi. Così aveva osservato la spada quasi con reverenza, mentre gli occhi gli si inumidivano per la commozione.
Aveva percorso con le dita l’acciaio brunito della lama, che sembrava vibrare sotto il suo tocco. Poi le sue mani erano scivolate fino a stringere l’impugnatura a fuso, rivestita di fili d’argento e rame, per risalire infine alla crociera, ingrossata in mezzo e laminata in oro. Qui, all’attaccatura della lama, il ragazzo aveva percepito un‘incisione, un lungo solco diritto che sembrava un difetto della forgiatura. L’aveva toccato più volte, guardando il padre con un certo imbarazzo, finché Guglielmo non si era messo a ridere.
- No, figliolo – aveva detto con quella sua voce burbera – non è un difetto. È una runa. – Poi aveva ripreso l’arma e indicato il solco col dito. – Vedi? – aveva proseguito. – Questa è Isa, la runa del ghiaccio. Essa gelerà il cuore dei tuoi nemici. Tu, però – aveva aggiunto strizzando l’occhio – non parlarne a nessuno, soprattutto al prete che la benedirà. Perché, sai, le rune fanno parte del mondo antico. E ogni mondo è geloso dei suoi segreti.
Aleramo aveva fatto di sì con la testa, ancora più affascinato da quel piccolo mistero. Poi aveva trascinato la spada nella sua stanza e l’aveva messa sotto il guanciale. Quella notte, in previsione della partenza, aveva dormito poco e male, ma, ogni volta che si svegliava di soprassalto, toccava Isa e si sentiva subito rincuorato.
Nei primi tempi, comunque, la spada si era rivelata soltanto un peso in tutti i sensi. Il giovane scudiero riusciva a sollevarla appena e i suoi sforzi erano occasione di infinite canzonature da parte dei compagni. A poco a poco, però, il fisico si era fatto più robusto e la muscolatura più solida, finché, un bel giorno, Aleramo si era preso la sua rivincita in piazza d`armi, gareggiando alla pari coi più anziani. Da quel momento, Isa non aveva più abbandonato il suo fianco, aiuto prezioso in battaglia e testimone eloquente di quel carattere tenace che in molti ormai avevano avuto occasione di apprezzare.
Anche ad Aquae Aleramo era stato preceduto dalla sua fama. Quando comparve ai margini dello spiazzo, a cavallo, accompagnato da Folco e da un piccolo seguito, la notizia del suo arrivo si propagò in fretta, provocando un sussulto tra la folla assiepata. I più vicini s`inchinarono a riverirlo, mentre gli altri, dietro, cominciarono a premere quelli davanti, ansiosi di vedere, sfiorare e, magari, toccare l`uomo che portava con sé tutte le loro speranze.
Davanti a quella calca, Aleramo non esitò. Lasciò il cavallo, si guardò intorno per un momento e si avviò verso la chiesa con piglio deciso, seguito da un Folco scontroso quanto mai. Vedendoli incedere, i più vicini cercavano di scostarsi dal passaggio, ma altri prendevano subito il loro posto, formando una marea umana che avanzava e si ritraeva come le onde di un mare in tempesta.
Una donna, tutta scarmigliata, si fece largo a spintoni reggendo in seno un bambino. Giunta che fu davanti al conte, s’inginocchiò, tese le braccia e glielo porse, mentre il piccolo scalciava e si dibatteva urlando. Quando Aleramo prese il bambino e lo sollevò in alto, la folla proruppe in un boato. Le donne urlarono, i giovani lanciarono in aria i berretti e i padri alzarono a loro volta i propri figli, perché potessero essere partecipi anche loro di quel grande momento.
Nello spiazzo la confusione raggiunse il culmine. Per non essere travolti, Aleramo e Folco si strinsero spalla contro spalla, cercando di raggiungere la chiesa che era ormai a pochi passi. Per loro fortuna, proprio da quella parte prese ad avanzare un gruppo di armigeri che, usando le aste delle lunghe lance, aprirono un varco nella ressa. I due, così, riuscirono a passare, raggiungendo incolumi i pochi scalini che portavano all’ingresso.
Dentro li aspettavano i maggiorenti cittadini. Giudici, avvocati, notai, cerusici stavano addossati l`uno contro l`altro, in piedi, tutti agghindati e con l`aria solenne delle grandi occasioni. All`ingresso, Aleramo si slacciò il cingolo e affidò Isa a Folco. Quindi proseguì il suo cammino, accennando brevemente col capo mentre oltrepassava il crocchio dei notabili. Quando giunse davanti all’altare, piegò le ginocchia a terra e si raccolse in preghiera. In piedi dietro il suo signore, Folco reggeva la spada sulle due mani tese.
Intanto, la folla che stava fuori faceva ressa per entrare, ma la chiesa non era abbastanza grande per contenere quella moltitudine. Così, dopo essersi ammassati invano all’ingresso, molti furono costretti a rimanere sul sagrato. Non si rassegnarono, comunque, e si accalcarono davanti alle porte aperte cercando di sbirciare dentro, per cogliere almeno qualcosa del grande evento che si sarebbe celebrato.
L`interno era in penombra. Dalle strette feritoie laterali filtrava soltanto una lama di luce, mentre le poche lucerne accese non riuscivano a dissipare il buio. Il fumo dell`olio che bruciava si univa a quello degli incensi, creando una nebbiolina lattiginosa che restava sospesa a mezz`altezza lungo la navata.
Il caldo era soffocante e Aleramo si allentò il colletto con le dita, mentre l`odore pungente dell`incenso gli pizzicava il naso. Poi la scena davanti a lui cominciò ad animarsi. Per primo apparve uno stuolo di chierici in cotta bianca, che si dispose ai bordi dell’emiciclo. Subito dopo, un corteo di presbiteri, formato dai sacerdoti e dai canonici delle pievi diocesane, si allargò ai lati dell’altare. Alcuni risalirono i gradini e predisposero quanto era necessario per la celebrazione. Poi tornarono ai loro posti, fermandosi ad aspettare. Solo allora Restaldo avanzò, mentre alle sue spalle si levava un coro di voci argentine.
Il vescovo indossava la pianeta finemente lavorata delle cerimonie solenni, segnata con i colori del lutto. Sotto portava la stola con le tre croci e l’alba di lino bianco che gli scendeva fino ai piedi. Appoggiata sul petto, splendeva la catena con la croce, mentre l`anello d`oro riluceva sulla mano guantata di bianco che reggeva il pastorale.
In testa aveva la mitra, ma, dopo essersi inginocchiato davanti all’altare, la consegnò a due chierici e rimase con il capo coperto dal solo zucchetto. Quindi si avvicinò alla cathedra, circondato dai presbiteri, e benedisse i presenti, dando inizio al rito solenne.
Aleramo si sforzava di essere un buon cristiano e, un po’ per fede, un po’ per ufficio, presenziava spesso a cerimonie religiose di ogni genere, da quelle fastose con i nobili del regno, fino alle piccole messe nelle pievi di campagna. Mai, però, gli era capitato di assistere a una funzione intensa come quella che si stava celebrando in quella sede.
Data la ricorrenza, i passi scelti dalle Scritture si riferivano tutti alla Beata Vergine Maria e alla Sua Assunzione in Cielo. Il lettore li scandì con tono fermo ma sommesso, mentre le mani giravano lentamente le pagine del lectionario e la parole rimanevano come appese nel silenzio. Il timbro di Restaldo, invece, era intenso, vibrante, fatto per incitare gli animi e scuotere le coscienze. Quando intonò il Kyrie, in piedi davanti al trono, la sua voce rimbombò per le navate, sovrastando quelle del coro e toccando le corde della commozione in tutti i presenti. Al Gloria in excelsis Deo, la commozione si trasformò in fierezza, mentre le schiene si raddrizzavano, gli occhi rilucevano e centinaia di bocche si aprivano per seguire il pastore nel suo canto.
Al termine, Restaldo avanzò lungo l’emiciclo. Di solito predicava la parola di Dio recitando le omelie dei Padri della Chiesa. Quella giornata, però, era così particolare da spingerlo a lasciarvi un segno personale. Perciò aveva lavorato alacremente a un sermone tutto suo, cercando tra i Sacri Testi le citazioni più appropriate all’occasione. Poi, per essere più sciolto, lo aveva mandato a memoria, e ora saliva i gradini dell’ambone risoluto a dare il meglio di sé.
Giunto in cima, passò in rassegna tutta la chiesa con gli occhi ridotti a due fessure. Quindi, quando il silenzio fu assoluto, cominciò a parlare.
- Vos video, fratres – esordì in tono cupo. - Vi vedo e vi ascolto, mentre osservate ciò che succede intorno. La campagna è devastata, la terra è squallida e i contadini sono sgomenti perché il raccolto dei campi è perduto. Giù dai nostri monti si spande una torma feroce, che ha in faccia un fuoco divoratore e dietro di sé lascia una fiamma ardente. Dinanzi a lei trema la terra, si scuotono i cieli, il sole e la luna si oscurano e le stelle ritirano il loro splendore.
- Vos video, fratres. Vi vedo e vi ascolto, quando scrutate l’orizzonte nell’attesa vana di un soccorso che non potrà salvarci. E vi chiedete l’un l’altro: Cosa ne sarà di noi? Perché proprio sul nostro capo si abbatte questa disgrazia? Cosa abbiamo mai fatto per meritarci l’ira del Signore?
Dopo avere posto queste domande, la voce di Restaldo crebbe di tono. - Fratelli! – gridò – chiedete alla vostra anima. Interrogatela e vi risponderà con le parole di Isaia profeta: “Vae vobis! Guai a voi che dite male il bene e bene il male, che fate tenebre la luce e luce le tenebre; che date amaro per dolce e dolce per amaro! Guai a voi, che siete sapienti ai vostri occhi e prudenti a vostro giudizio! Guai a voi che giustificate l`empio per un regalo e negate al giusto la giustizia!
“Perciò il Signore si accende d`ira contro di voi e vi percuote. Col suo sibilo ha chiamato uno dal confine della terra e questo, veloce, verrà. Ha le sue frecce aguzzate a tutti i suoi archi tesi. Le unghie dei suoi cavalli rassomigliano alle selci e le sue ruote all`imperversare della tempesta. Ha un ruggito da leone e afferrerà la preda senza alcuno che la possa riprendere. Si alzerà sopra di esso in quel giorno un muggito come il muggito del mare e anche i più belli fra gli uomini periranno di spada e i più valorosi cadranno in battaglia.”
Arrivato a questo punto, il vescovo fece una pausa. L’uditorio rimase come appeso alle sue parole, con gli occhi sbarrati rivolti all’insù e il respiro mozzo per la trepidazione. In tutta la chiesa, nessuno parlava e nessuno osava muoversi.
Allora Restaldo continuò con voce più calma: - Ecco, fratelli, le parole di Isaia. Non chiedetevi dunque se avete peccato, ma come potete redimervi. Rivolgetevi alla Beata Vergine Maria in questo giorno della sua gloria e dite con me: “Ascolta, Madre Santa. Noi abbiamo peccato e operato empiamente, abbiamo fatto il male e trasgredito i precetti del Signore. Sed tu, miserere nostri! Esaudisci le nostre suppliche, strappaci dalle mani dei nostri nemici e salvaci. Altrimenti, saremo perduti per sempre!
“Convertitevi, fratelli, al nostro Signore Iddio, perché egli è benigno e misericordioso, paziente e predisposto a condonare il male. Chissà che non si rivolga a noi e perdoni, e lasci dietro a sé la sua benedizione.
“Come potremo, in pochi, combattere contro una moltitudine così grande e così forte – chiesero a Giuda?. E Giuda disse: - Vincere in guerra non dipende dal numero dei combattenti, ma dal valore che viene dal cielo. Essi ci vengono incontro, moltitudine insolente e superba, per sterminare noi e le nostre mogli e i nostri figli. Noi invece combatteremo per le nostre vite e le nostre leggi, e il Signore medesimo li schiaccerà sotto i nostri occhi. Dunque, non ne abbiate paura. Non timueritis eos!
“Non disse forse Davide al Filisteo Golia: Tu vieni a me colla spada, con la lancia e con lo scudo, io invece vengo a te nel nome del Signore; quel Signore che ti darà oggi in mia mano.
“E Saul ne abbatté mille, ma Davide diecimila, perché Davide era il prediletto del Signore.
- Preghiamo allora con Davide: “Il Signore è la mia rocca, la mia forza e il mio Salvatore. Dio è la mia fortezza e il mio rifugio. Invocherò il Signore e dai miei nemici sarò liberato. Egli tuonerà dal cielo, scaglierà le sue saette contro i miei nemici e li dissiperà. Con lui io accorrerò armato e scalerò le mura. Con lui inseguirò i miei nemici e li sterminerò e non tornerò indietro finché non li avrò annientati. E li spezzerò perché non abbiano più a rialzarsi, finché cadranno sotto i miei piedi.
Cercate me e vivrete, dice il Signore. Quaerite me et vivetis in perpetuum.”
Le ultime parole furono pronunciate come in un sussurro. Quindi il vescovo si voltò e scese dall’ambone. Quel movimento spezzò l’incanto che teneva avvinti i fedeli: qualcuno tossì, qualcuno si soffiò il naso e molti stropicciarono i piedi per terra, come per liberarsi dalla tensione. Persino Aleramo si sorprese a fare un gran respiro; poi provò ad allentarsi ancora una volta il colletto, ormai madido di sudore. Subito dopo, però, venne il suo turno.
Restaldo percorse nuovamente l’emiciclo e gli si parò di fronte. Allora il conte si inginocchiò, prese la spada dalle mani di Folco e sollevò le braccia per l`offerta. Il vescovo sfiorò la lama con la mano guantata, quindi prese l`aspersorio e la spruzzò con l`acqua benedetta.
- Adjuta nos, domine! - intonò, allargando le braccia.
- Cum praesidium tuum! - rispose subito il coro.
- Aiutaci, o Signore! – riprese Restaldo. - Guarda nel loro campo, come già ti degnasti di guardare a quello degli Egiziani, quando armati inseguivano i tuoi servi. Alza il tuo braccio come da principio, e spezza con la tua forza la forza loro.
Chinò il capo, posò la mano sulla spalla di Aleramo e proseguì: - Dio dei cieli, creatore delle acque, Signore di tutte le creature, esaudisci noi miserabili che ti supplichiamo e confidiamo nella tua misericordia. Liberaci da questa piaga e dai la vittoria al tuo servo fedele, che sguaina la sua spada non per sete di vendetta, ma per proteggere il popolo di Dio.
Quindi, mentre la sua voce echeggiava ancora per la navata, fece rialzare il conte, lo abbracciò e lo mostrò ai fedeli, mentre il coro intonava l’Alleluia.
Fu un altro momento toccante, ma la commozione raggiunse il culmine quando, al termine della Messa, cominciarono a sfilare le reliquie conservate nella chiesa, che dovevano essere portate in processione per sottrarle alla furia dei Mori. I chierici presero ad avanzare a coppie, tenendo tra le mani un cero e scortando i presbiteri che reggevano le teche contenenti i sacri resti. Passando davanti al vescovo, s’inginocchiavano; poi proseguivano lungo la navata centrale, tra due ali di folla.
Si cominciò con la reliquia più antica, un pezzo di stoffa dell’abito di san Siro, il primo a predicare il Cristianesimo nella città. Si proseguì con un dito di santa Giustina, un`immagine di san Dalmazzo, uno scapolare di san Marziano e vari reperti che si riferivano ai martiri di Cordova: Giovanni, Isacco, Flora, Eulogio. Davanti a ognuno, Restaldo si inginocchiava e si raccoglieva in una breve preghiera.
Aleramo, in cuor suo, dubitava dell’autenticità di tutte quelle reliquie. A corte si scherzava spesso sul numero delle tibie di san Giovanni, così come si osservava che, con i crani che c`erano in giro, san Cristoforo doveva avere molte teste di ricambio. Però se ne parlava sottovoce, perché la chiesa aveva orecchie lunghe e, soprattutto, buona memoria.
Comunque fosse, Restaldo si era dimostrato veramente abile. Siro era un santo a cui Aquae si sentiva così legata da mandare a ogni ricorrenza, al suo sepolcro in Papia, tanto olio d`oliva da illuminarlo per un anno intero. Quanto a santa Giustina, la reliquia era arrivata dalla badia della vicina Secadio, che si sentiva minacciata anch’essa dai Saraceni.
Il colpo da maestro, tuttavia, Restaldo lo aveva fatto con le reliquie più recenti. Si trattava, infatti, di Cristiani messi a morte dai Mori di Cordova, dopo essersi rifiutati di rinnegare la loro fede. Il messaggio agli Aquesi era eloquente e Aleramo ammirò il modo sottile che il vescovo aveva scelto per mandarlo ai fedeli.
Qualcosa aveva ottenuto anche lui, comunque. Con la benedizione della spada, Restaldo aveva riconosciuto pubblicamente l`esistenza di un`autorità diversa dalla sua e l`aveva legittimata di fronte alla città. Per questo Aleramo si rassegnò a seguirlo, quando il vescovo s’incamminò verso l’uscita della chiesa per iniziare la processione.
Fuori, se possibile, c’era ancora più gente di prima ad aspettarli. In testa a tutti, i maggiorenti dell’amministrazione cittadina, accompagnati dagli araldi e dai banditori con le chiarine. Subito dopo, il popolo aquese, compatto e trepidante. Questa volta, però, non ci furono scene di giubilo e neanche urla tra la folla. Soltanto un reverente silenzio da cui si alzava, ogni tanto, il sommesso mormorio delle giaculatorie.
Le teche con le reliquie aprivano il corteo. Subito dopo avanzava la statua della Beata Vergine, che ondeggiava sul palanchino retto da otto uomini degni. Quindi, dietro la grande croce del Cristo, veniva Restaldo, preceduto da due lunghe file di presbiteri e di chierici che camminavano a testa bassa, salmodiando, con un cero acceso in mano.
La strada era tenuta sgombra da due schiere di armigeri disposti lungo i lati, con le lance abbassate in modo da formare una barriera. Nessuno, però, premeva più di tanto per passare. La folla attendeva composta il passaggio del corteo, si segnava, si inginocchiava e poi si aggiungeva dietro. Così, un po’ alla rinfusa, il popolo di Aquae seguiva i suoi pastori come gli Ebrei avevano seguito Mosè nel deserto.
Aleramo li lasciò andare. Per loro era stata una grande giornata, di cui si sarebbe parlato a lungo nelle sere d’inverno, con le mani tese davanti al fuoco e le imposte ben chiuse verso l’esterno. Lui, però, era quello che all’inverno doveva farli arrivare vivi e aveva ancora molte cose da fare prima che la sua grande giornata giungesse. Così, seguì lentamente la processione fino al bordo dello spiazzo, sfilandosi pian piano dalla ressa. Poi, quando arrivò al punto dove aveva lasciato il cavallo, montò in sella e piegò a destra, aggirando il corteo con i suoi uomini.
Al castro trovò Leonardo e Grimaudo che lo aspettavano. Mangiò qualcosa in fretta, in loro compagnia, quindi i tre uomini iniziarono il giro dei bastioni, seguiti da Folco. Quella ricognizione giornaliera era ormai diventata un’abitudine, oltreché un modo per scaricare la tensione dell’attesa. Aleramo ne approfittava per controllare i posti di guardia e allertare gli uomini che vigilavano sulla città, ma anche per verificare lo stato di avanzamento delle difese.
Ci volevano scorte di terra, polvere, sabbia e soprattutto aceto per spegnere i fuochi delle frecce incendiarie. E ancora, acqua, olio, pece e pietrame da scaricare contro gli attaccanti. Tutto doveva essere facile da raggiungere per gli assediati, ma nello stesso tempo posto al riparo degli assedianti. Ciò era ancor più vero per i viveri, perché qualunque combattente resiste meglio se sa che può riempirsi la pancia. Fortunatamente, ad Aquae le scorte alimentari erano abbondanti, ma Aleramo manteneva ugualmente sotto controllo i depositi e teneva ad accertarsi di persona dello stato delle granaglie e del loro livello.
Quel giorno, comunque, non ce n’era modo, perché i magazzini erano quasi tutti ubicati nel concentrico cittadino, proprio dove la processione avrebbe portato la calca maggiore. Un contrattempo fastidioso, compensato tuttavia dall’opportunità di poter dare un’occhiata da vicino ai dintorni di san Pietro. Nei suoi giri, infatti, spesso Aleramo rifletteva con i compagni sulle possibili direttrici d’attacco dei Saraceni e sulle contromisure da mettere in atto. Ogni volta, però, la conclusione era la medesima: lo sfondamento sarebbe avvenuto sulla loro destra e la chiesa avrebbe rappresentato il primo obiettivo dei nemici.
Fino ad allora era stato impossibile compiere una ricognizione attenta della zona. Troppi occhi avrebbero osservato e troppe bocche si sarebbero precipitate in città a riferire. Quel pomeriggio, però, il luogo sarebbe stato senz’altro deserto e disponibile. Così, risalendo la via Aemilia a sud e costeggiando il Medrico, il gruppo raggiunse lo spiazzo dove si era svolta la funzione del mattino.
Intorno non si vedeva anima viva e i cavalieri poterono continuare al passo, superando la chiesa e risalendo verso l’interno. Giunti al grande frutteto di proprietà del vescovo, lasciarono i cavalli all’ombra delle piante. Poi s’incamminarono a piedi, esaminando con attenzione la consistenza dei muretti a secco, l’ampiezza dei fossi, lo stato delle vasche dell’acqua e la robustezza delle costruzioni.
Aleramo s’intrattenne soprattutto con Grimaudo, al quale non si stancava mai di segnare a dito anche i più piccoli particolari. Il capitano si grattava la barba pensieroso e ogni tanto annuiva gravemente, rispondendo poche parole. Leonardo e Folco seguivano dappresso, ascoltando con aria attenta quel fitto conciliabolo che si svolgeva davanti a loro.
Soltanto al calar del sole Aleramo fu soddisfatto. Riprese il suo cavallo, montò in sella e guidò il gruppetto verso il ponte sul Medrico. Quindi, attraversata la porta delle terme, raggiunse la sua dimora, dove salutò brevemente i compagni e licenziò Folco. Dopo una giornata così intensa, si sentiva stanco e aveva solo voglia di starsene un po’ per conto suo. Così si fece portare la cena nelle sue stanze, mangiò e cadde addormentato quasi subito. Prima dell`alba, però, fu svegliato da un servo, tutto trafelato.
Il messaggero, appena arrivato da Salsole, aspettava nel vestibolo, con la guazza sugli stivali e il mantello ancora indosso. - Vengono! - disse subito, quando comparve Aleramo. - Li abbiamo sentiti, signor conte! Sono passati sotto di noi, stanotte, come tanti diavoli neri!
- A piedi o a cavallo? – disse soltanto Aleramo, ancora insonnolito.
Il messaggero lo guardò. – A piedi, signore. Erano a piedi. Hanno fatto tremare il bosco marciando, e le civette hanno gridato nel buio!
Aleramo fece un rapido calcolo. Salsole era un borgo arroccato in cima a una collina, a poche miglia da lì. Dunque sarebbero stati ad Aquae, al massimo, due giorni dopo. All`improvviso, si sentì sveglio e lucido come non mai. Congedò il messaggero, fece le scale di volata e cominciò a urlare ordini a tutti quelli che gli capitavano a tiro.
C`erano ancora tante cose da fare, ma l’attesa no. Quella, almeno, era arrivata alla fine.