IX
Il corteo uscì dal palazzo di buon mattino, mentre il sole forava a stento la bruma di quella giornata autunnale. Ottone aveva inteso fare, del tragitto verso la chiesa di san Michele, un modello di solenne raccoglimento e di devota compunzione, da offrire a tutti gli occhi che avrebbero scrutato i suoi passi.
In testa non c’erano tamburi, né trombe, né tanto meno araldi. Al loro posto si dipanava una processione di vescovi, arcivescovi e abati, rivestiti dei loro abiti più sfarzosi, ma con l’umile contegno dovuto al solenne ufficio che stava per andare a compimento. Subito dopo, una doppia fila di oranti cantava i salmi dell’Alleluia, scortando gli sposi che procedevano come in trono, assisi su due portantine scoperte: davanti Ottone e dietro Adelaide. Seguiva la lunga fila dei re, dei principi e dei vassalli, chi in lettiga e chi a cavallo.
Ottone portava la corona ed era avvolto in una lunga tunica purpurea, stretta in vita da una fibbia d’oro. Dalle ampie maniche le sue mani forti uscivano a stringere il regale scettro. Adelaide aveva la testa ornata di un semplice cerchietto che brillava sopra il velo bianco drappeggiato intorno. Anche lei indossava una tunica vermiglia, in segno di gioia e come augurio di fertilità. Ma, a differenza dello sposo, il suo abito era ricamato a motivi floreali, riportati lungo i risvolti delle maniche e verso il fondo. Sul davanti era riprodotta un’immagine delle nozze di Cana, con il Cristo benedicente.
Aveva faticato molto per farsi confezionare la tunica con quei ricami, superando le resistenze di sua madre Berta e i dubbi espressi da alcuni alti prelati della corte. Però, quello era il suo giorno e lei aveva voluto affrontarlo con un abito all’altezza. Non si era risparmiata neanche le cure per avere un aspetto splendido, come splendente si sentiva dentro: olio di oliva e miele per ammorbidire la pelle; decotti di piantaggine per togliere i segni lasciati dalla gravidanza; unguenti di calcina, olio e cannella, da strofinare sulla peluria delle braccia, delle gambe e delle ascelle; ranno con aggiunta di acqua di rose per fare morbidi e lucenti i capelli. Infine si era messa davanti a un grande specchio d’argento, attorniata da uno stuolo di ancelle, e ne era emersa radiosa come mai.
Ora procedeva dritta e fiera, reggendo tra le mani candide un ramo di agrifoglio, simbolo di fedeltà e di felicità domestica. Tutta Papia era assiepata lungo la strada per assistere al suo passaggio. Gli uomini si toglievano i cappelli, le donne gridavano benedizioni e i bambini le mandavano baci, che lei ricambiava accennando col capo e rivolgendo loro quel sorriso che tanto li ammaliava, ancora più fulgido e seducente.
La chiesa di san Michele maggiore si trovava poco fuori il viridario, lungo un tragitto breve che dal palazzo portava al Ticino, verso i bastioni di guardia. Da quando Lotario le aveva narrato dell’esposizione di san Colombano e della sua miracolosa guarigione, Adelaide aveva sempre visto in san Michele un luogo ospitale e rassicurante. Quel giorno, invece, le sembrò troppo austero, lontano e persino indifferente, come se appartenesse a un altro posto e a un altro tempo. Assisa sulla sua lettiga, con l’abito rosso e il velo tra i capelli, si sentì improvvisamente piccola, indifesa, schiacciata dalla mole della facciata ancora deturpata dal grande incendio, mentre sopra di lei incombeva l’arcangelo con la spada fiammeggiante.
Per un attimo ebbe come un mancamento e provò il desiderio di fuggire, di andarsene di lì e di lasciare indietro Ottone, la corte e anche il matrimonio. Poi vide accanto a sé Corrado, che s’inchinava e le porgeva la mano sorridendo. Quella presenza amichevole la rinfrancò. Allora scese, appoggiandosi al braccio del suo grande fratello.
Sul davanti si aprivano le cosiddette Porte degli Uomini, mentre di lato c’era la Porta del Re, dove il vescovo Litifredo attendeva gli sposi insieme ai presuli giunti col corteo. Lungo il breve tragitto era schierata la guardia regia, con i pennacchi sugli elmi, le corazze luccicanti e le spade alzate in segno di saluto.
Fu lì che si diresse Adelaide, scortata da Corrado, mentre Ottone la precedeva in compagnia della regina madre. Avvolta in un manto blu che le lasciava scoperto solo il davanti dell’abito color del cielo, Matilde avanzava con passo lento e incedere fiero, la testa alta e lo sguardo fisso davanti a sé. Giunta al cospetto del vescovo, chinò brevemente il capo davanti a Litifredo e si fece da parte, lasciando il braccio del figlio. Quindi fu la volta di Adelaide, che si avvicinò per prendere il suo posto accanto a Ottone.
Il rito fu semplice e toccante. Dopo che il vescovo Litifredo ebbe interrogato gli sposi sulla loro volontà di contrarre matrimonio, alcuni chierici sollevarono un velo bianco sopra le due teste chine. A quel punto si fece avanti il fratello del re, Brunone, recando l’anulus sopra un cuscino. Venne quindi il momento di Corrado, che si avvicinò ad Adelaide e mise le mani della sposa in quelle del marito. Quindi Ottone prese l’anulus, lo passò sul pollice destro di Adelaide, poi sull’indice e infine sull’anulare, sul quale si fermò recitando la formula della tradizione: “Con questo anello io ti sposo, ti dono questo oro e del mio corpo ti onoro”. Intanto Litifredo seguiva i suoi gesti, pronunciando la benedizione rituale.
L’anello era d’oro fino, sapientemente cesellato. Mentre Ottone lo infilava al dito di Adelaide, la mano di Dio brillò al sole, sul castone dov’era incisa fra le due corone. Lei lo accarezzò per un momento, poi s’inginocchiò davanti allo sposo, che la rialzò e la prese tra le braccia, dandole il bacio maritale. Infine, a conclusione della cerimonia, tutti entrarono in chiesa, dove fu celebrata una messa solenne nella quale vennero pronunciate orazioni speciali per gli sposi e in ricordo dei loro più cari defunti.
Tanto era stato devoto e compunto il tragitto all’andata, quanto fu allegro e gioioso il ritorno. All’uscita Ottone e Adelaide vennero acclamati come in un trionfo. Lo spiazzo di san Michele era assiepato da una folla immensa, che gremiva tutte le strade intorno. Trattenuta a mala pena da un robusto cordone di guardie, la gente premeva per farsi sotto, spintonando quelli davanti, gridando e intonando cori, mentre le donne lanciavano fiori e grano, in segno di buon augurio. Qualcuno, per aggirare gli sbarramenti, non esitò a entrare in chiesa, dove venne però bloccato dal corteo che stava ancora uscendo. Qualcun altro si arrampicò persino sui tetti delle case adiacenti, spenzolandosi e rischiando di finire sotto.
Finalmente, come Dio volle, l’agitazione si placò quel tanto necessario per permettere agli sposi di proseguire oltre. Questa volta si assisero entrambi su una portantina sola, seduti l’uno accanto all’altro. Intorno a loro si formò la scorta della guardia reale, che iniziò la marcia al passo, aprendosi un varco tra la folla.
Poiché si sapeva che l’attesa era tanta e tutti volevano vedere la reale coppia, per il ritorno era stato convenuto un percorso più lungo, che si snodava attraverso il centro della città. Così il corteo risalì lentamente la strada, costeggiò il palazzo vescovile e passò accanto alle cattedrali di santo Stefano e di santa Maria, preceduto dal rullo dei tamburi e dagli annunci degli araldi. Arrivati davanti al foro, mentre sullo spiazzo garrivano i pennoni e gli armigeri facevano argine alla folla, Ottone e Adelaide ricevettero l’omaggio della città e dei suoi rappresentanti. Quindi il corteo piegò a diritta e s’inoltrò lungo la strada che portava al palazzo. Qui era stato allestito il più grande banchetto che mai, a memoria d’uomo, Papia avesse visto nei tempi.
I preparativi erano andati avanti giorni e giorni, mettendo a dura prova l’intera servitù e l’orgoglio del maggiordomo di palazzo. Il siniscalco era sempre stato fiero del suo grado e geloso della sua folta, nerissima barba. Ora, però, il peso del compito a cui era chiamato rischiava di schiacciarlo, mentre ogni nuovo ospite sembrava aggiungere qualche filo bianco al suo mento. E gli ospiti erano veramente tanti. Troppi, anche per la casa del re.
Fatti i conti, era apparso subito chiaro che nessuna sala sarebbe stata sufficiente a contenere quella folla, né cucina grande abbastanza per sfamarla, o cantina rifornita per dissetarla. Tutto si rivelava piccolo, inadeguato, angusto, come se il palazzo si fosse improvvisamente ristretto oppure qualcuno ne avesse portato via una parte.
Fortunatamente il siniscalco era anche uomo d’esperienza, capace di mettere ordine alle cose e di dare loro il giusto posto. Così aveva capito subito che l’unica soluzione possibile alla mancanza di spazio era quella di cercarlo dove ce n’era in abbondanza: fuori, nei cortili e in viridario. Per aumentare la capienza delle cucine, ad esempio, aveva dato ordine di aggiungere tavoli e lavatoi all’aperto, dove mondare le verzure e prepararle per la cottura da fare sui fuochi interni. Quanto alla carne, vista la mole di certi tagli, aveva fatto ricorso addirittura all’esercito, utilizzando come spiedi i ferri con cui le truppe si esercitavano al campo.
Per il luogo del banchetto ci aveva messo un po’ di più, perché aveva dovuto attendere le decisioni di Ottone prima di procedere all’allestimento. Ottenuto il consenso del re, aveva tappezzato le aiuole del giardino di grandi tende, dove i servi avevano provveduto ad allestire le mense.
Finiti i preparativi una cosa sola restava in dubbio, ma risolverla non era nei poteri umani. Così il siniscalco si era raccolto in preghiera, raccomandandosi a Domineddio e a tutti i Santi perché non piovesse. Almeno, non lì e non nel giorno delle nozze.
Le sue preghiere furono esaudite e il corteo fece ritorno a palazzo sotto un cielo splendente. Mentre i convitati scendevano da cavallo e si avviavano a mensa, il sole si stagliò caldo sulle loro teste, accarezzando le aiuole fiorite e facendo brillare i colori vivaci delle tende. Davanti all’ingresso centrale, oltre la strada che si diramava verso le porte, c’era una spianata erbosa che digradava dolcemente fino ai giardini del viridario. Lì, dove tutti potevano vedere gli sposi, era stato innalzato il padiglione regio, quello più grande e più bello. Ai lati, da una parte erano stati raccolti i musici e dall’altra le tavole per le vivande. Ogni portata infatti doveva passare dalla tavola del re prima di essere distribuita agli ospiti, secondo il rango.
Adelaide era scesa dalla portantina nel cortile del palazzo. Uno stuolo di fantesche e ancelle le si fece subito intorno, chi per assestarle la veste, chi per drappeggiarle il velo, chi per ravviarle l’acconciatura dei capelli. Il sole, e l’emozione di quel giorno, le avevano acceso il viso e le avevano illuminato i grandi occhi grigi, che scintillavano come perle. Qualche tocco sapiente attenuò le piccole rughe di tensione che le irrigidivano il volto e tamponò le minuscole gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Ma niente riuscì a placare quelle mani diafane, affusolate, che si agitavano senza posa, ora scivolando sull’abito, ora risalendo sul velo, ora ciancicando freneticamente un piccolo panno umido che qualcuno le aveva passato per rinfrescarsi le tempie.
Il corteo, la cerimonia in chiesa, lo sponsale erano stati grandi eventi, ma il momento che stava per realizzarsi di lì a poco, per Adelaide aveva un sapore particolare: quello del trionfo. Dopo la segregazione, dopo la fuga, dopo la prigionia e il lungo viaggio verso la salvezza, stava per mostrarsi di nuovo libera, di nuovo regina e di nuovo in auge, di fronte a coloro che l’avevano allontanata come una reietta.
Sentiva ancora tutte le ferite di quel percorso solitario; le delusioni, le ansie, le paure e la disperazione accumulate in quei lunghi mesi di silenzi e di minacce. Ma portava dentro di sé la fierezza di non aver ceduto e l’orgoglio di essere riuscita a tornare indietro. Da padrona. Finalmente.
La spianata erbosa scintillava al sole quando lei si avventurò a piccoli passi, scortata da Ottone e accompagnata dalla sua vecchia e nuova famiglia, che la seguiva dappresso. Raggiunto il ciglio sopra il padiglione, si fermò a guardare sotto. Tra le grandi tende che tappezzavano la spianata i nobili di tutto il regno si aggiravano in attesa, passeggiando e facendo capannello. Ogni tanto i loro sguardi erano attirati all’insù e fu così che videro il corteo reale fermo in cima al sentiero che si dipanava tra le aiuole.
Fu subito un susseguirsi frenetico di cenni, di richiami furtivi, di ammiccatine rivolte a coloro che non avevano ancora visto o non si davano per intesi. I capannelli si sciolsero in fretta e si assembrarono in un unico gruppo, che ondeggiò come mosso dal vento, prima di dirigersi verso il padiglione reale. Lì giunto, si allargò formando un semicerchio ampio e un po’ disordinato, perché tutti facevano a gara per stare in prima fila, a vedere e farsi vedere dai nuovi signori.
Le dame presero a lisciarsi furtivamente le vesti e a ravviarsi le acconciature, sbirciando di sottecchi il corteo nuziale che incombeva. I cavalieri raddrizzarono le spalle sotto le cappe e strinsero le mani sull’impugnatura delle spade, tossicchiando imbarazzati.
A quel punto, dalla parte dei musici partì un unico, prolungato suono di tromba e il corteo iniziò lentamente la sua discesa. Adelaide incedeva maestosa, affidandosi al braccio di Ottone. Quando giunsero al padiglione regio, lui le prese la mano e la condusse gentilmente davanti ai due scranni dall’alto schienale, che spiccavano al centro della tavolata, mentre ai loro lati si aggiungevano i commensali.
Quando ognuno ebbe preso il suo posto, Ottone sollevò un calice, lo mostrò agli astanti in segno di brindisi e lo porse sorridendo alla sua compagna. Subito partì un altro squillante suono di tromba e tutti piegarono il capo, rendendo il dovuto omaggio ai sovrani.
Adelaide scrutò a lungo quelle teste chine. Riconobbe tra loro molti partigiani di Berengario e molti tra quelli che avrebbero potuto soccorrerla e invece non avevano speso una parola. Fremette a quella vista e le mani le si attorcigliarono intorno al calice, mentre il volto s’imporporava di furore. Ma vide anche i loro figli, appena adolescenti, ancora senza peli sul volto e senza ombre sul cuore. E vide, in mezzo ai volti noti, le figure dei suoi nuovi sudditi, Sassoni, Svevi, Teuti e Franconi, che non aveva ancora imparato a conoscere ma cominciava ad apprezzare.
Comprese allora che quello era il momento per un nuovo inizio. Il momento per lasciarsi alle spalle un mondo opaco, fatto soltanto di ingiustizie e di soprusi. E che quel passo così delicato e difficile cominciava anche da lei. Dalla sua capacità di perdonare, di non coltivare il rancore come una mala pianta nella quale avvolgere i suoi dolori.
Ci voleva forza. E perseveranza. E dedizione.
Le sue mani tremarono mentre sollevava il calice in alto e le sue labbra faticarono ad aprirsi per bere. Poi, mentre lo rendeva ad Ottone, i loro sguardi si incrociarono. Lei lesse ancora una volta negli occhi di lui il futuro che l’attendeva. La promessa di un mondo nuovo, di un nuovo impero, più giusto e più umano. Allora, finalmente rasserenata, prese posto sullo scranno e il suo sorriso radioso illuminò la spianata.