VIII
Se si fosse potuto guardare Papia dall’alto, in quello squarcio d’autunno appena velato di nebbia, l’effetto sarebbe stato impressionante. La notizia delle nozze regie era rimbalzata come un sasso nell’acqua, allargandosi in cerchi sempre più grandi. Dai cammini franchi come dalle direttrici di Verona, Milano, Roma e Ravenna, le strade che portavano alla città avevano cominciato a riempirsi di viandanti. Per primi avevano preso la via quelli che alla festa si accontentavano di assistere: pellegrini, villani, sacerdoti, monaci, mendicanti. A loro avevano fatto seguito le carovane dei mercanti, i carretti degli artigiani, le compagnie dei saltimbanchi; tutti curiosi di vedere l’avvenimento, ma anche speranzosi di ricavarne qualche profitto. Man mano che la scadenza si avvicinava, si erano mossi infine coloro che contavano e dello spettacolo erano chiamati a far parte: notabili, ambasciatori, dignitari, alti prelati, preceduti da drappelli in armi e seguiti da cortei di servitori, assistenti e paggi.
Lungo le strade della Baviera si snodava l’imponente carovana del duca Boleslav, gloria di Boemia. Boleslav aveva vissuto anni difficili e molto amari, nei quali aveva cercato di opporsi allo strapotere sassone anche giungendo a sbarazzarsi di suo fratello, il più accomodante Vaclav, che lo aveva preceduto sul trono. Ma l’omaggio ad Ottone gli aveva reso molto, perché soltanto il suo appoggio gli aveva consentito di resistere alle congiure di palazzo e di domare i bellicosi popoli slavi. Così, appena gli era giunta notizia delle nozze, Boleslav non aveva avuto esitazioni. Davanti a sé vedeva l’occasione della vita: partecipare a quel consesso straordinario insieme ai rappresentanti di tutti i grandi regni. E, per di più, in Italia, la terra del papa, di Roma e dell’impero.
Non aveva lesinato gli sforzi per approntare un corteo sfarzoso, degno degli sposi e all’altezza delle sue ambizioni. Sotto i suoi stendardi procedeva un carro stipato di magnifiche pelli: lontra, martora, volpe, castoro, lupo, e persino un raffinato manto, cucito con candidi ermellini provenienti dalla sterminate foreste della Rus’. Sul fondo erano adagiate una corazza di bronzo laminata in oro e una spada finemente istoriata, che si dicevano appartenute al leggendario Alessandro il Grande. Accanto, un pugnale d’osso di balena a cui gli sciamani attribuivano il potere di scacciare il malocchio, anche se Boleslav non sapeva bene perché.
Oltre la siepe di picche che scortava il carro trottava una piccola mandria di cavallini ungari, dalle zampe villose e dalla folta chioma. In coda procedeva una moltitudine colorata e berciante, composta di saltimbanchi, incantatori, mangiatori di spade, fachiri, zingari e indovini, arrancando nella polvere sollevata dal corte e trascinando una gabbia a ruote in cui era rinchiuso un gigantesco orso bruno.
Ogni sera, ordinata la sosta, Boleslav passava in rassegna i suoi tesori. Poi si sedeva davanti al fuoco del bivacco e assisteva allo spettacolo che veniva messo in scena per lui. Con un occhio rivolto ai balli dell’orso e l’altro fisso al profilo delle montagne di fronte, la mente già a Papia, dove Boleslav sognava un ingresso trionfale. Da re.
Lontano molte leghe da lì, qualcun altro volgeva lo sguardo verso Papia. I suoi pensieri, però, erano meno lieti. Luigi IV di Francia, altrimenti detto d’Oltremare per essere cresciuto alla corte del nonno Edoardo d’Inghilterra, a differenza di Boleslav una corona ce l’aveva davvero. Peccato che il regno fosse solo di facciata. La sua signoria si limitava a Laon, Reims, Rouen e poche terre intorno, mentre il potere vero stava nelle mani dei baroni. Soprattutto, in quelle rapaci dei suoi grandi antagonisti: Ugo Capeto e, per l’appunto, il grande Ottone.
L’assurdo di una simile situazione consisteva nel fatto che Ugo si diceva suo sostenitore e Ottone si proclamava suo alleato fedele. Anche famigliare, visto che gli aveva dato in sposa sua sorella Gerberga. Dopodiché, niente gli aveva impedito di occupare la Lotaringia, nonostante i buoni diritti che la corona di Francia poteva vantare sulla regione. E, persino l’anno prima, quando Ottone lo aveva aiutato a ristabilire l’arcivescovo Artaud sulla cattedra di Reims, Luigi aveva sentito risuonare quel gesto come uno schiaffo rivolto alla sua persona.
Per questi motivi aveva deciso di ignorare le nozze. Che Ottone si sposasse pure, ma senza di lui. Non gli era riuscito, però, di persuadere Gerberga e neanche di trattenere Lotario, il primogenito ed erede al trono. Sua moglie non faceva altro che magnificare le bellezze di Papia e le imprese del suo grande fratello. Quanto a Lotario, appena decenne, quella era un’età in cui le passioni incendiano il cuore. Mentre Gerberga parlava, gli occhi di Lotario fissavano trepidanti quelli del padre, mentre le gambe si muovevano irrequiete, già pronte a lanciarsi nell’avventura.
Alla fine Luigi aveva ceduto e il corteo era partito da Reims in un giorno grigio, alle prime luci dell’alba. Dall’alto delle mura lui aveva seguito la piccola sagoma di Lotario che cavalcava fieramente dietro gli stendardi azzurri col giglio regio. Accanto procedeva suo zio, il vescovo Roricon, mentre Gerberga viaggiava con la piccola Matilde in un carro coperto, attorniata dalle sue dame. Appresso, sotto buona scorta, venivano i doni. Luigi aveva scelto personalmente alcuni arazzi di squisita fattura, del buon vino della Champagne e, con una piccola perfidia, una muta di molossi belgi che abbaiavano senza posa. Gerberga aveva aggiunto, quale suo dono personale ad Adelaide, stoffe e sete preziose, mentre il venerabile Artaud aveva inteso mandare a Ottone, in segno di riconoscenza, una grande croce a due mani, con lo stemma di Reims incastonato di preziosi.
Dopo essersi dipanato per la vallata il corteo aveva proseguito la marcia lungo i dossi della Marna, fino all’Aube. Un viaggio lento, quasi pigro, in mezzo a villaggi contadini e a piccoli borghi assiepati intorno alle loro rocche scure. Entrando in territorio borgognone, però, l’atmosfera era cambiata totalmente. La piccola Adel, figlia prediletta di quella terra e vanto della Borgogna, stava per andare in sposa al grande Ottone. Di lì a poco sarebbe diventata regina d’Italia, di Germania e, poi, sicuramente imperatrice.
Non c’era villano o cittadino, nobile o plebeo, ricco o miserevole che non avesse seguito con commozione le vicissitudini di Adelaide e non avesse trepidato per la sua sorte. Nelle taverne come nelle stalle, al mercato o presso le corti, per mesi l’argomento era stato sempre lo stesso e molte preghiere erano state indirizzate a Dio perché preservasse lei e sua figlia Emma. Quando la bimba era giunta a Orbe, per giorni le campane avevano rintoccato lungo le valli. Alla liberazione di Adelaide il borgo di saint Maurice si era riempito di gente, giunta per celebrare con re Corrado il grande Te Deum di ringraziamento nel sacrario dell’abbazia.
Dopo l’annuncio delle nozze, però, il sollievo dei borgognoni si era trasformato in un incontenibile tripudio. Ogni finestra, ogni balcone, ogni loggiato esponeva un drappo in segno di gioia e ghirlande di fiori freschi ornavano gli stipiti delle porte, le navate delle chiese, i campanili, gli archi e persino i carretti per le strade. Su tutte le torri sventolavano i leoni di Borgogna e molti ne portavano il simbolo cucito sulle tuniche, dalla parte del cuore.
A Losanna la confusione era al massimo. La regina Berta era già partita con la piccola Emma, ma re Corrado aveva deciso di fare a Papia un ingresso trionfale. Così aveva stabilito lì la sua sede e verso la città convergevano tutti coloro che volevano assistere col sovrano al grande evento. Anche la delegazione franca venne accolta con giubilo e Corrado diede il benvenuto a Gerberga nel grande palazzo vescovile che si ergeva sulla collina, splendente di luci e di mille colori.
Il giovane Lotario approfittò della sosta per andarsene un po’ in giro, rimanendo incantato dai pontili in legno e dalle piccole barche, i cui profili si stagliavano nell’acqua scura del lago Lemano. Poi il viaggio ricominciò e Franchi e Borgognoni presero la strada delle Alpi, procedendo per vie sempre più strette e arrampicandosi su per i passi di montagna. Ogni tanto dalla colonna si levava un canto e le voci rimbombavano come il rombo del tuono lungo le gole.
La discesa li portò ad attraversare Aosta, la bella Augusta Praetoriana, dove Lotario restò a lungo col naso all’insù a guardare l’imponente arco di trionfo che si stagliava contro le mura del teatro romano. Quindi fu la volta di Ivrea e, infine, di Vercelli. Qui furono raggiunti dai Provenzali, guidati da Bosone, e il corteo già imponente diventò una fiumana.
I nuovi arrivati recavano aironi, astori, falchi e, tra il seguito, contavano buffoni, rimatori, giullari. Persino dei Mori, che montavano stupendi cavalli andalusi e si diceva facessero parte di un’ambasceria. Così, tra una canzone e una rima, l’aria cominciò a riempirsi dei voli dei rapaci e, un’altra volta, Lotario si trovò a guardare in su, seguendo le loro eleganti movenze contro il cielo.
Finalmente, al culmine di una giornata tiepida e chiara, comparve all’orizzonte la mole della turris alba, che sovrastava il ponte coperto e guardava la porta sul Ticino. A quel punto venne dato l’alt e tutti, nella comitiva, si rassettarono, tirando fuori le loro vesti migliori, mentre re Corrado mandava avanti gli araldi perché annunciassero il suo arrivo. Quindi il corteo avanzò al passo, mentre il ponte rimbombava sotto gli zoccoli e i soldati teutoni acquartierati fuori le mura battevano le picche sugli scudi, gridando frasi di benvenuto e grandi evviva.
Papia era la capitale del regno fin dal tempo dei Longobardi, dunque adusa ad accogliere ospiti, cortei, seguiti, ambascerie. Ma quel fiume di visitatori che si riversava dalle porte sarebbe stato troppo per qualsiasi città. Le strade erano intasate da un flusso continuo di viaggiatori che si trascinavano dietro ogni sorta di cavalcature e di bagagli. Appena arrivati tutti andavano a caccia di una locanda, di una stalla, di un ostello, del pagliericcio di un convento. Ben presto un letto di fieno cominciò a costare come una sella e un letto vero quasi quanto un cavallo. Quindi, mentre le borse dei Papiesi traboccavano di conio e i ricoveri di gente, chi era arrivato tardi o non poteva pagare il conto dovette acconciarsi come gli riusciva meglio.
Alcuni trovarono ospitalità nei magazzini, nei retri delle botteghe, nei loggiati delle chiese, in cortili, androni e soppalchi. I più poveri dovettero adattarsi a dormire all’aperto, insieme ad accattoni e mendicanti, con una coperta per riparo e sperando che almeno il cielo si mostrasse clemente. In questo modo Papia rimase trafficata anche di notte e le ronde cittadine ebbero il loro bel daffare a reprimere liti e borseggi.
Ciò che preoccupava di più i giureconsulti era, comunque, l’estrema varietà dei costumi e dei linguaggi. Già si faceva fatica a capirsi nelle pratiche più comuni ma, quando si beveva un bicchiere di troppo, i fumi dell’alcool andavano alla testa e le mani correvano in fretta alle armi. C’erano vecchi conti da regolare tra Lorenesi e Sassoni, tra Normanni e Bretoni, tra Borgognoni e Aquitani, che quella vita promiscua inaspriva, logorando gli animi. E, come se non bastasse, c’erano le dispute infinite fra le città italiche: Milanesi contro Papiesi, Genovesi contro Veneziani, Piacentini contro Modenesi e quelli della Tuscia contro tutti gli altri.
Nei giovani, poi, il fuoco si accendeva in fretta. Bastava un’occhiata di traverso, uno sguardo di troppo, una parola a una fanciulla per innescare parapiglia nei quali spesso finiva per scapparci il morto. Così, dopo aver ascoltato il vescovo Litifredo e interpellato il conte di palazzo, giudici e scabini decisero che, se non era possibile calmare gli ardori di quella gioventù bollente, era il caso almeno di farla sfogare in luoghi e in modi più convenienti. Fuori città, poco oltre il Ticino, c’era un grande pratum communis, messo in piano e circondato da una fila di alberate. Lì venne preparato un campo dove chiunque poteva mostrare la sua destrezza e confrontare il suo valore nelle armi.
Gli araldi percorrevano la città di continuo, annunciando le gare che si sarebbero disputate e i premi in palio per i contendenti. Alla presenza di un magistrato e di un robusto manipolo di guardie si svolgevano ogni giorno gare di corsa, incontri di lotta, tornei con spade di legno, pali come giavellotti e vere e proprie battaglie. Alla sera i vincitori venivano portati in città per essere incoronati di fronde, tra le acclamazioni della folla. Così Papia ebbe anche i suoi eroi, tra i quali rifulsero un certo Gaidolfo di Rodeno, mirabile arciere, e un soldato svevo, gran lottatore, che di nome faceva Sansone.
La situazione comunque rimaneva precaria e toccava arrangiarsi anche alle persone in vista. Alcuni, tra vescovi e abati, trovarono casa nei possedimenti che avevano in città. Il vescovo di Piacenza si sistemò nel convento di santa Cristina, quello di Como in un ricovero lungo le mura, l’abate di san Salvatore di Brescia nel monastero della Regina e quello di san Silvestro presso la chiesa di santa Maria Capella, che il suo ordine aveva in proprietà assieme ad alcune case e a un banco di vendita nel foro clauso. Per accogliere gli altri il vescovo Litifredo fu costretto a fare spazio nell’episcopato, spostando lettori, diaconi, chierici e ceriferari. Ricavò in quel modo una serie di stanze in cui si acquartierarono alla meglio gli altri presuli sopraggiunti.
Quanto ai laici, molti piccoli nobili scelsero la strada meno dispendiosa del contado. Così presero d’assalto corti e corticelle che si trovavano intorno a Papia, garantendosi un alloggio comodo e anche la possibilità di essere presenti, quando il gran giorno fosse arrivato. Per gli alti notabili, invece, vennero aperti i cancelli del viridario e le porte del palazzo regio. Lungo l’ampia zona boscosa che si stendeva oltre il giardino e la peschiera, le truppe teutoni vennero chiamate all’opera per costruire un grande campo all’aperto. I soldati alzarono recinti, scavarono latrine, prepararono cucine da campo e mangiatoie per i cavalli, tirando su, in pochi giorni, una vera e propria città fatta di tende. Lì, seguendo un ordine rigorosamente stabilito dal protocollo di corte, vennero alloggiati al loro arrivo conti, marchesi e nobili di rango.
Davanti a tutti, e dunque più vicini al re, i suoi uomini migliori, coloro che lo avevano accompagnato e sostenuto in quella campagna d’Italia: Corrado il Rosso, suo genero e duca di Lorena; suo fratello Enrico, duca di Baviera; Liudolfo, duca di Svevia e figlio della sua prima moglie Edith. Accanto, i vescovi di Coira, Toul, Metz, Verdun, nonché l’arcivescovo di Colonia, Wingfrid, quello di Treviri, Roberto, e il brillante Federico, arcivescovo di Magonza e arcicappellano regio.
Il palazzo era stato riservato interamente al re. Al piano basso c’erano gli uffici della sua amministrazione: la cancelleria, l’intendenza, il siniscalco, i messi regi e il conte di palazzo. Nella zona solariata stavano gli appartamenti dei reali. Il più estremo era quello di Ottone, che era anche il più guardato. Quindi venivano quelli dei suoi familiari: suo fratello Brunone, sua figlia Liutgarda, e poi le stanze di sua madre, la regina Matilde, donna pia e grande protettrice del regno. Di fianco, gli alloggi di re Corrado, di sua madre Berta e della regina Gerberga, insieme al loro seguito di ancelle e paggi. Sopra i pennoni il cavallo bianco dei Sassoni svettava in mezzo ai gigli carolingi e ai leoni di Borgogna.
Ma non tutti erano stati contenti delle sistemazioni ricevute e le loro lamentazioni erano giunte al re, mediante il conte di palazzo. Ottone aveva ascoltato pazientemente, però su una cosa si era dimostrato irremovibile. Nei giardini del viridario, accanto ai canili, c’era una palazzina che veniva usata per la caccia. Era una costruzione rustica, eppure confortevole e spaziosa. Al suo arrivo Ottone aveva ordinato di riordinarla con cura, per prepararla ad accogliere il Papa con il suo seguito. E, anche quando era stato chiaro che Agapito mai avrebbe lasciato Roma, la palazzina era rimasta vuota, emblema della perseveranza del sovrano e del suo desiderio supremo: essere incoronato imperatore, ripercorrendo le orme del grande Carlo Magno.
Fin dalla sua gioventù Ottone era stato conquistato da quella figura che ormai era diventata quasi leggenda. Quando suo padre Enrico ancora teneva il regno, lui era solito recarsi ad Aquisgrana, dove amava passeggiare nei luoghi prediletti da Carlo e restare in raccoglimento davanti al trono contenuto nella basilica, con un libro in mano. Si trattava della Vita Karoli compilata da Eginardo e Ottone aveva imparato da quello scritto come dovesse essere un sovrano: paziente, umile, clemente coi deboli e forte coi forti. Misericordioso con chi chiedeva perdono, ma spietato con coloro che non facevano ammenda delle loro colpe, perché la sovranità viene da Dio e nessuno può metterla in discussione.
Persino lo stendardo regio lo confermava nei suoi pensieri. Egli non amava indugiare troppo sulla contesa tra Franchi e Sassoni, che era durata decenni e tanti lutti aveva provocato. Preferiva piuttosto ricordare Widukind mentre sul suo cavallo bianco si dirigeva al fonte battesimale, con Carlo accanto a fargli da padrino. E a lui, Ottone, il sangue di Widukind scorreva nelle vene perché gli era stato trasmesso dalla madre, progenie illustrissima di quel grande eroe.
Giunto il suo momento, era ad Aquisgrana che aveva voluto ricevere la corona. Prima unto dai vescovi e poi salendo il trono di Carlo, con indosso la porpora e lo scettro in mano, mentre tutt’intorno le braccia si alzavano per rispondere alla domanda: - Volete voi quest’uomo?
Il coro dei sì aveva sopraffatto le navate e, in quel momento, Ottone aveva sentito un altro coro giungere alle sue orecchie dalla lontana Roma. Per questo non aveva preso bene il rifiuto del Papa, anche se Agapito lo aveva mascherato con dolci parole e con l’invio di alcune preziose reliquie, destinate alle nuove chiese che Ottone stava costruendo fra i pagani. Come dire: tornatene a casa e lascia perdere san Pietro.
La delusione era stata cocente. Al ritorno dell’ambasceria il re aveva addirittura scaraventato i doni in un canto, prendendo a male parole i prelati che l’avevano guidata: Hartbert di Coira e soprattutto Federico di Magonza, sulla cui sagacia aveva molto confidato. In un accesso d’ira gli aveva tolto persino l’arcicappellanato, al che quello aveva abbandonato furibondo la città, seguito da Liudolfo che era deluso a sua volta perché vedeva in quell’imminente matrimonio un rischio per la sua successione al trono.
Ma Ottone non aveva tempo da dedicare alle beghe. Ben altro premeva al suo cuore e affollava i suoi pensieri. L’offesa di Agapito era stata grave e ad essa bisognava reagire in qualche modo. Le nuptiae arrivavano al momento giusto. Con o senza il Papa, la cerimonia avrebbe dovuto essere fastosa, tale da mostrare al mondo tutta la sua potenza e il suo splendore. Anche la sua modestia, però, perché si potesse dire che il titolo di difensore della fede se lo meritava davvero.
Per tutti questi motivi rifiutò la proposta del vescovo Litifredo, di celebrare le nozze nella cattedrale estiva dei santi Stefano e Siro. Scelse invece la chiesa di san Michele maggiore perché fra le sue navate si consacravano i re. Quindi fece battere dalla zecca milanese dei denari d’argento che recavano la scritta “Otto Imperator” e diventarono subito noti come “Ottolini”, di cui si servì per fare generose elargizioni alle chiese e ai conventi della Papia intera.
Nel frattempo gli giunse il conforto di un’ambasceria importante. Dal porto di Ravenna alcune chiatte veneziane risalirono il Ticino, portando da Bisanzio i ricchi doni dell’imperatore Costantino. Il basileus era un uomo colto, potente, a capo di un impero ancora invitto e forte, pronipote del grande Basilio e dunque avvezzo all’oro e alla porpora. La sua attestazione di amicizia e l’affettuosa missiva che gli aveva indirizzato, chiamandolo dux e fratello in Cristo, rallegrò Ottone non poco. Fu quindi con rinnovata lena che si mise all’opera, per fare di quelle nozze imminenti il più grande evento che mai fosse stato visto nella storia dei Cristiani.
Adelaide ne condivideva appieno lo spirito. Lasciò dunque a Berta e a Corrado la trattativa materiale che, considerando gl’interessi in gioco, si presentava complessa e delicata. Era necessario conciliare tradizioni diverse, tener conto dei figli che sarebbero venuti e di quelli che già erano nati. Infine procedere ad un’attribuzione vicendevole dei possedimenti, la dote portata dalla sposa e la morgengab dello sposo: il dono del mattino. Intanto, mentre si definiva il verbum che li avrebbe uniti per sempre, Adelaide s’intratteneva con Ottone, che le parlava dei suoi progetti, delle sue aspirazioni e dei suoi sogni.
Il re era di complessione robusta, non alto ma prestante, con un viso dai tratti marcati, incorniciato da una folta barba che lui si faceva acconciare con cura ogni mattina. Camminava a scatti, ora rapido ora impacciato, come se l’andamento dei passi seguisse il filo dei pensieri. In sua presenza Adelaide non sentiva i fremiti che aveva provato fra le braccia di Osmund. Però percepiva la forza di Ottone, la fermezza del suo sguardo e il calore delle sue parole. Così lo ascoltava e intanto pensava che quello poteva diventare amore vero, basato sul rispetto della maturità e non più sulle infatuazioni passeggere di una ragazzina.
Ora che cominciava una nuova vita, trovava giusto andarle incontro senza rimpianti e senza esitazioni. Per questo motivo, quando era tornata a Papia dopo le sue peregrinazioni, aveva esitato a riprendere possesso delle sue vecchie stanze. Troppi ricordi e troppi pensieri. Così aveva dato ordine di rinnovare gli ambienti, conservando soltanto le memorie più care di Lotario e quel letto dove aveva pianto tutte le sue lacrime nella notte della fuga. Per il resto, via tutto, che si trattasse di tendaggi, di mobili, tappeti o paramaneria. Ne erano venuti fuori ambienti più chiari, più caldi e più solari, come si sentiva lei, ora che aveva riacquistato la sua dignità e riavuto la sua bambina.
Emma, specialmente, non cessava di stupirla. L’aveva lasciata in fasce e se la ritrovava grande, a ciangottare tutto il giorno, incespicando qua e là per le stanze con le manine protese verso ogni cosa. Spesso Adelaide se la sedeva sulle ginocchia e le spazzolava i capelli, che scendevano ricci intorno al collo, splendenti più dell’oro. Poi l’abbracciava stretta e le parlava fitto, mentre la bimba si divincolava, già smaniosa di riprendere il suo girovagare.
Anche Ingorde era smaniosa, ma per altre cose. Al suo arrivo a palazzo aveva trovato ad aspettarla un preoccupatissimo Brunello, che le aveva buttato le braccia al collo giurandole eterno amore. Da quel momento Ingorde aveva cominciato a piangere, finché Adelaide l’aveva messa alle strette, costringendola a confessare per che cosa.
- Tutto qui?! E non sei contenta? Invece di piangere, dovresti ridere di gioia.
- Lo so, lo so – aveva replicato Ingorde tra le lacrime. – Però, se vado a vivere con lui come farò…come farò a stare con voi, mia signora?
Adelaide si era messa a ridere. – Certo – aveva detto fingendo un po’ di esitazione – messa così, direi che non c’è molto da fare…
- Vedete! – aveva esclamato Ingorde. – Anche voi lo dite! – E giù lacrime come un fiume in piena.
A quel punto Adelaide aveva preso la servetta fra le braccia e l’aveva costretta ad alzare il viso. – Però un modo ci sarebbe… se lui servisse qui, a corte, potreste seguirmi entrambi. Ovunque vada.
Questo bastò a far tornare Ingorde una donna felice, come fu raggiante Adalberto Atto quando arrivò a Papia e venne ammesso all’udienza dei sovrani. Nella sala del trono Adalberto mise le mani in quelle di Adelaide, che lo accompagnò fino al seggio di Ottone. Propter peticionem suam disse il sovrano, prendendo le mani di Adalberto Atto tra le sue. Quindi lo proclamò conte di Modena e di Reggio, fra le acclamazioni dei cortigiani. Seguì una solenne cerimonia di ringraziamento, celebrata nella chiesa di san Colombano e officiata dal buon padre Candido insieme al vescovo Adelardo, con l’assistenza di Martino.
Tutto questo contribuì molto a rasserenare l’animo di Adelaide, facendole sentire meno l’ansia per le nozze imminenti. Ma il tempo correva in fretta e il gran giorno finalmente arrivò, tra una corte pervasa dall’agitazione e una città al culmine del fermento.