I
Era notte fonda e la città di Papia dormiva, distesa sul suo pianoro accanto al fiume, raccolta fra le mura. Come spesso accadeva in quelle zone, l’inizio della Quaresima di quell’anno del Signore 951 aveva coinciso con un tempo incerto, bizzoso, sospeso tra le avvisaglie di un acquazzone che non arrivava mai e l’apparizione di un sole pallido che bucava a stento le nebbie del mattino. Verso la fine del periodo penitenziale, però, il clima aveva virato decisamente al bello e un vento frizzante aveva spazzato via le brume, lasciando il cielo terso e un vago sentore di primavera in arrivo.
A oriente la falce della luna inquadrava la porta Palatina, sulla quale spiccava il grande arco romano che la sormontava. Subito oltre le mura si allungava l’ampio complesso del palazzo regio, con le sue costruzioni, i suoi cortili e la vasta distesa incolta che si protendeva verso sud, fino ad incrociare la strada che usciva da san Giovanni e di lì proseguiva verso la corte Ollona.
Il viridario era sempre stato l’orgoglio della città e il vanto dei suoi regnanti. Fin dal tempo in cui Teodorico aveva iniziato la costruzione del palazzo, ogni cura era stata messa per abbellire il grande giardino e tenere in ordine il bosco. Nel corso degli anni molte generazioni di servi si erano avvicendate nel potare siepi e nel sarchiare aiuole; molte generazioni di giardinieri si erano affaccendate nel trapiantare semi e nell’innestare piante. E molte famiglie, nobili e potenti, avevano lasciato il loro segno all’ombra di quei viali. Così il viridario era cresciuto pian piano, arricchendosi di padiglioni, loggiati, foresterie, peschiere e ospitando i canili con le mute per le cacce del re.
Tutto questo, però, era stato spazzato via di colpo, in un altro giorno di primavera, non molti anni prima. Anche quella volta tirava vento, ma in alto non c’era solo la luna. Il cielo era solcato da lunghe strisce rosse che sibilavano nell’aria tersa e si piantavano con un tonfo sordo sui tetti delle case. Intorno alle mura le urla degli Ungari accompagnavano i cavalli in un galoppo sfrenato, che stringeva in una morsa di fuoco la città e serrava il cuore dei suoi difensori.
Il fuoco aveva attecchito rapidamente, aiutato dal vento. L’incendio più grande era partito proprio dal viridario, annientando in poche ore il lavoro di secoli. Incenerito il bosco, distrutti i padiglioni, consumate le aiuole, le fiamme avevano attaccato il complesso del palazzo. La loro furia si era abbattuta sulle grandi stalle reali, sulle terme, sui magazzini e sulla loggia con il mosaico di Teodorico, da cui il re amministrava la giustizia. Persino la zecca era andata distrutta e si diceva che l`argento, fondendo per il calore, fosse colato giù per le cloache cittadine.
Di argento, comunque, gli abitanti di Papia erano stati costretti a racimolarne molto. E anche ori, stoffe, arazzi, tappeti, vasi preziosi, con cui pagare gli Ungari e scrollarseli di dosso. Quando la torma si era dileguata in cerca di nuove prede, la città era praticamente distrutta. Molte case e quasi tutte le chiese erano ridotte a rovine fumanti. Almeno la metà degli abitanti, compreso il vescovo, era morta nell’assedio. Gli altri vagavano inebetiti fra le rovine, incapaci di darsi pace in mezzo a quel disastro.
Avrebbe potuto essere la rovina di Papia, ma la città aveva ancora delle risorse. Le zone esterne alle mura, le grandi chiese di san Pietro e santa Maria, così come i porti fluviali, avevano retto molto meglio all`assalto, protetti dalle acque dei fiumi e trincerati dietro le loro barriere. Di lì era ricominciato il commercio ed erano ripresi i transiti, perché Papia era pur sempre la capitale del regno e il punto in cui s’incrociavano molti traffici.
Anche Ugo aveva contribuito alla rinascita, quando, dopo qualche tentativo a vuoto, era riuscito finalmente a rimediare il trono d’Italia. Con i suoi baffoni all’insù e il suo vocione da basso, Ugo era più adatto a fare il compagno di baldorie che il re, ma quelli erano tempi difficili e non si poteva guardare troppo per il sottile. I Papiesi erano gente pratica e avevano apprezzato i suoi tentativi di tenere buoni gli Ungari, così come quelli di restaurare almeno una parte del complesso reale. Un palazzo degno di questo nome significava corte e una corte voleva dire affari.
Se Ugo, insieme alla famiglia ci teneva anche le sue concubine, in fondo quelli erano fatti suoi e aggiungevano un tocco piccante ai pettegolezzi da mercato oppure alle chiacchiere da taverna. Non di più, perché sfidare Ugo era poco raccomandabile.
Ne sapeva qualcosa Valperto, che fra le mantenute del re teneva una sorella e aveva cercato di riscattare l’onore della famiglia sollevando il popolo. Solo che, quando era uscito dalla città per andare incontro a Ugo che rientrava dalla caccia, il popolo aveva pensato bene di chiuderlo fuori. Il re invece lo aveva chiuso dentro, dandogli una torre, tutta per sé, proprio accanto alla porta Palatina. La torre di Valperto, come l’avevano chiamata i Papiesi da allora, anche se l’ospite non vi si era trattenuto a lungo.
Ma si sapeva che Ugo era ombroso e vedeva nemici dappertutto. Con la sua politica del sospetto aveva finito per inimicarsi quasi tutti i potenti del regno e pochi lo avevano rimpianto quando era morto, d’indigestione o di veleno, nella natia Provenza. Intanto, in Italia già non contava più nulla. Di lui e dei suoi intrighi era rimasto un solo erede, il giovane Lotario. Quando anch’egli era morto, lasciando la moglie Adelaide con una bimba in culla, il regno era passato nelle mani del potente marchese di Ivrea, Berengario, e di suo figlio Adalberto.
Per consolidare il trono Berengario aveva chiesto ad Adelaide di sposare Adalberto e, dopo il suo rifiuto, la sorte della regina vedova era diventato il pezzo forte dei pettegolezzi cittadini. - Cane non mangia cane - osservavano gli ottimisti. - Già, ma le disgrazie sono come le ciliegie: una tira l`altra - ribattevano gli scettici scrollando il capo.
Tutti si auguravano che la faccenda venisse risolta in modo onorevole. Un bel matrimonio era senz’altro preferibile al chiostro ed era meglio che la torre di Valperto non cambiasse nome. Nessuno pensava a un epilogo diverso e nessuno immaginava che quella notte serena avrebbe portato fatti destinati a mutare non soltanto la vita di Papia, ma dell’Italia intera.
Il palazzo era buio, immerso nel sonno. Gli unici rumori che turbavano il silenzio erano quelli che, di quando in quando, provocavano i picchetti di guardia. Uno strascicare di passi, un tintinnio di armi, la voce data ad ogni passaggio della ronda. Poi tutto tornava immobile, mentre gli armigeri si ritiravano a presidio dei cancelli che chiudevano la strada nei due sensi: dalla parte delle mura e verso l’abitato.
Nell’ala orientale del palazzo, però, dietro gli scuri e i tendaggi della zona solariata, qualcuno vegliava. Dai giorni del lutto Adelaide non era più entrata nella stanza di Lotario e ora, ferma sulla soglia, provava un’emozione così grande da farle tremare il lume fra le mani. La luce fievole si rifletteva sul suo viso chiaro, incorniciato da piccole vene azzurre come il mare, e rendeva diafani i suoi capelli biondi più del miele. Con la gravidanza e il parto la figura slanciata si era un poco appesantita, ma le ultime disavventure l’avevano smagrita, restituendole quelle forme snelle e aggraziate che le erano naturali.
Dopo avere aperto la porta aveva scrutato a lungo nel buio, mentre le vene pulsavano alle tempie e lo sguardo vagava incerto, come quello di un animale braccato che cercasse di sottrarsi ai cacciatori. Poi il volto si era irrigidito, il corpo si era raddrizzato e negli occhi grigi era apparsa una luce interiore di fierezza e di orgoglio, mentre la giovane regina entrava nella stanza di colui che aveva tanto amato.
Ogni cosa all’interno era ricoperta da lunghi teli bianchi, segnati dalla polvere che ricamava sottili baffi grigi fra le pieghe. Soltanto il letto era a vista, ma le cortine tirate nascondevano l’intimità dell’alcova. Per un momento Adelaide pensò che Lotario fosse là dietro, ad aspettarla come faceva sempre, fingendo di dormire. Lei si avvicinava silenziosamente, posava il lume, scostava le tende e finiva avvolta in quel suo abbraccio tenero che scaldava il cuore.
Ma il letto era vuoto e il guanciale freddo. Di Lotario era rimasta soltanto la veste da camera, quella di broccato rosso che gli piaceva tanto e faceva risaltare i suoi capelli chiari. Adelaide la sfiorò delicatamente con le mani, vi affondò il viso e singhiozzò a lungo, mentre le sue piccole dita si aggrappavano al broccato.
Quando finalmente si acquietò, rimase seduta sul letto e si diede della sciocca. Non era venuta in quella stanza per piangere Lotario. Già lo aveva fatto nei mesi scorsi, consumando tutte le sue lacrime. Lei era lì per dire addio a se stessa, a una parte della sua vita che era stata felice, ma ormai era finita. E, prima di lasciarla indietro, voleva rivederla un’ultima volta per portarne la memoria indissolubilmente impressa in fondo al cuore.
Così ragionando, si accostò a un telo e lo tirò via. Sotto apparvero alcuni oggetti che lei ben ricordava: una piccola spazzola col manico intarsiato, un pettine di corno dall’impugnatura d’osso e uno specchio d’argento dai bordi sbalzati. Quest’ultimo era appartenuto ad Alda, la madre di Lotario che lei non aveva mai conosciuto. Adelaide lo sfiorò delicatamente, ricordando quanto il giovane re vi fosse affezionato.
Il secondo telo copriva un cassettone. Tirandolo, uno dei bordi s`impigliò in un cofanetto, rovesciandone per terra il contenuto. Adelaide s’inginocchiò, mise il lume accosto e si trovò davanti le gioie di Lotario, sparse al suolo. Altri ricordi l’assalirono.
C’era l’anello col sigillo, regalo di Ugo quando lo aveva associato al trono; la catena d`oro che lei stessa gli aveva portato dalla natia Borgogna; la spilla che aveva appuntata al manto il giorno dell’incoronazione; alcuni anelli e qualche bracciale sparsi alla rinfusa. Lo sguardo di Adelaide cadde su un piccolo monile d`argento, confuso tra le altre gioie. Un braccialetto in filigrana, che più di tutti brillava sotto la poca luce.
Lo riconobbe subito e la memoria volò all’indietro, quando lei era una bimbetta di sei anni appena. Anche quella volta era in lutto. Suo padre, il grande Rodolfo di Borgogna, era morto all’improvviso e lei si nascondeva dietro le sottane della nutrice mentre, nella corte del palazzo regio di Orbe, sua madre Berta e suo fratello Corrado intrattenevano gli ospiti giunti per i funerali.
Accanto a loro, agghindato come un damerino, Ugo si lisciava i lunghi baffi a punta e faceva il tenero con Berta, già pregustando il momento in cui avrebbe potuto unire le due case. Con lui c’era suo figlio Lotario, un ragazzino smunto con il viso serio e una ruga che gli attraversava la fronte come una ferita.
Lotario era poco più grande di Corrado e i due si erano intesi subito, mettendosi a confabulare in un angolo della corte. Adelaide li aveva spiati a lungo, girellando nei pressi senza che loro la degnassero di un’occhiata. Allora, rosa dal dispetto e dalla gelosia, aveva raccolto una manciata di terra e l’aveva tirata addosso al forestiero, sporcandogli il viso e lordandogli la tunica verde bordata d’oro.
Adelaide ricordava ancora la faccia stupita di Lotario e le urla di Corrado che la rimproverava. C’erano state molte altre urla quel giorno, e molti altri rimproveri, ma Lotario no. Lui si era limitato a togliersi di dosso il fango e a guardarla negli occhi. Poi le si era avvicinato, si era sfilato un braccialetto dal polso e glielo aveva teso, mentre il suo volto sorridente scopriva due buffe fossette sulle gote.
Era stato il gesto oppure le fossette a conquistarle il cuore? Stringendo il braccialetto, quel braccialetto in mano, Adelaide sorrise. Entrambi forse, anche se, sul momento, la bimbetta era scappata via senza raccogliere il dono.
Nei giorni successivi, comunque, le era sembrato che quella storia non fosse ancora finita. Ugo era sempre di cattivo umore. Adelaide lo aveva sentito più di una volta alzare la voce con Berta, mentre sua madre si faceva più nervosa e, la sera, il castello si affollava di notabili che confabulavano tra loro a bassa voce.
- Mamma, lo zio Ugo è arrabbiato con me? - aveva osato chiedere finalmente, un giorno, vedendo sua madre seduta in giardino.
- Ma no cara, che idea - l`aveva tranquillizzata subito Berta. - Re Ugo ti vuole bene.
- Allora perché grida sempre?
A quel punto Berta l`aveva sollevata e se l`era posata sulle ginocchia. - Perché vuole il nostro regno. Ecco perché - aveva risposto guardandola dritta negli occhi.
- Ma c`è Corrado, mamma. Lui ci difenderà - aveva risposto la bambina.
Berta aveva accennato un sorriso. - Corrado deve badare prima di tutto a se stesso - aveva detto mestamente. - Poi a noi, se ci riuscirà.
Lei era troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per avvertire la tensione. Così, quando aveva saputo della fuga di Corrado, si era sentita quasi sollevata. E, quando in un giorno pieno di neve, in riva al lago, Berta aveva sposato Ugo e Lotario si era promesso come suo futuro sposo, aveva realizzato soltanto che se ne sarebbe andata anche lei. Probabilmente, senza tornare indietro.
In quella vallata del Rodano dov’era nata e dove aveva trascorso l’infanzia, i suoi orizzonti non andavano oltre il profilo delle montagne. C’era il calore di Orbe, assicurato da uno stuolo di serve e di fantesche. C’era il mistero di Saint Maurice d’Augaune, con la sua cripta che raccoglieva i resti dei martiri tebani. C’era infine il fascino del lago, le gite in barca e le escursioni nei boschi di costiera, con la nutrice al fianco e lei che correva avanti a cogliere le more.
Prima di allora non aveva mai immaginato che la sua vita potesse essere diversa. Soprattutto, non aveva mai pensato che potesse essere altrove. Non sapeva neanche bene dove sarebbe andata, ma di una cosa era certa: non avrebbe consentito a nessuno, mai più, di disporre di lei come una merce, comprata chissà dove.
Il mondo che si era aperto davanti ai suoi occhi era difficile, complicato e minaccioso, ma lei aveva un inverno intero per capirlo e orgoglio sufficiente per riuscire nell’impresa. Nei giorni che avevano preceduto la partenza, la bambina spensierata, capace soltanto di correre nei boschi, aveva ceduto il posto ad una ragazzetta riflessiva, che non tirava più la terra ai forestieri: li studiava.
Durante il viaggio aveva avuto un solo momento di abbandono, sulle pendici del Mont Joux. Lì, osservando la sua valle perdersi tra le brume della sera, si era sentita smarrita anche lei. Ma aveva ricacciato indietro le lacrime e, dopo aver scollinato, i suoi occhi si erano appuntati su Lotario che cavalcava dietro ad Ugo. Se il suo posto era accanto a quel timido ragazzetto biondo, Adelaide era risoluta ad occuparlo e determinata a farlo contare in ogni modo.
A Papia tutto le era sembrato grande e tutto strano. Il mondo, visto da Orbe, sembrava piccolo, sereno e amichevole. Da Papia invece era infinito, misterioso e incomprensibile. Lei, però, non si era persa di coraggio. I tempi in cui cercava rifugio dietro le gonne della sua nutrice erano finiti per sempre e nessuno sembrava avere tempo per badare a lei. Persino Berta la trascurava, occupata com’era a tenere a bada quel nuovo marito, così esuberante e così diverso dal primo. Quanto a Corrado, le poche notizie che riusciva ad orecchiare lo davano alla corte del re di Germania, Ottone, in attesa di essere abbastanza grande da reggere il trono.
Per Adelaide queste erano le uniche buone nuove. Nei momenti di sconforto si aggrappava all’idea che Corrado, una volta tornato in Borgogna, l’avrebbe richiamata a sé. Con quel pensiero in testa si rifugiava nell’angolo più nascosto del palazzo e immaginava il suo ritorno ad Orbe. L’abbraccio del fratello, la corte, la grande sala padronale, la stanza al piano alto, da cui si potevano vedere la valle e le montagne che le facevano corona. Col tempo, però, quell’immagine scoloriva sempre più e al suo posto prendeva forma la nuova vita che l’attendeva.
Aveva capito ben presto che, se le toccava vivere alla corte regia, doveva sforzarsi di conoscerla meglio. Così si era unita alla nidiata di bambini che vivevano a palazzo, figli di nobili e di alti funzionari regi, trascinandoli in irresistibili scappatelle tra le mura di quel luogo vasto e misterioso. C`erano così tante cose da vedere che ad Adelaide il tempo non sembrava bastare mai. Dall`alba al tramonto la piccola percorreva i viottoli e i sentieri, dando la scalata alle mura diroccate del vecchio carcere, cercando di catturare i pesci che nuotavano nella vasca del viridario, avventurandosi nel bosco, frugando fra i resti delle terme oppure giocando a nascondino fra le macerie della zona occidentale, dove fervevano i lavori di ricostruzione.
Ovunque ci fosse qualcosa da vedere, lì, prima o poi, compariva Adelaide con il suo seguito di amici e in quel momento avevano inizio i guai. Se ne lagnavano i giardinieri, i servitori e soprattutto gli addetti alle cucine, dove la torma piombava ogni tanto a far razzia. L`unico posto dove Adelaide non si scatenava erano le scuderie. Nel grande fabbricato che ospitava le stalle reali la bambina si aggirava in punta di piedi, alzando il visino all`insù e guardando affascinata le sagome dei cavalli che si muovevano, desiderando tanto di averne uno. Tutto per sé.
Era nelle scuderie che ogni sera la trovava Lotario, quando aveva esaurito i suoi impegni e l’andava a cercare. Adelaide allora si rialzava e si stringeva al suo principe, rincantucciandosi contro la sua figura. Lotario le passava un braccio intorno alla vita e i due stavano per un po` così, senza parlare, finché il tocco del vespro li strappava ai sogni.
La bella vita, però, dura sempre poco. Quella di Adelaide era finita non appena Berta aveva deciso che era il momento di stringere il morso a quella figliola irrequieta. Debitamente sollecitato, anche Ugo aveva dovuto ammettere che bisognava intervenire.
- Quei ragazzini combinano più disastri di una banda di Ungari - aveva sentenziato ridacchiando. Dopo di che li aveva affidati alla custodia di due armigeri, più per togliersi il problema che per punizione.
Adelaide sorrise al ricordo delle due guardie che la seguivano ovunque. Quello più vecchio, grande e grosso, si chiamava Secondo e procedeva tutto impettito, come se si trovasse a svolgere chissà quale incarico importante. Il più giovane invece camminava disinvolto e fischiettando piano. Adelaide lo aveva battezzato subito Secondino e, da quel momento, Secondo e Secondino erano diventati un`occasione di svago in più.
Berta si era fatta allora più risoluta, affidando la figlia a frate Bartolomeo, il precettore che già istruiva Lotario. Adelaide non ne era rimasta affatto dispiaciuta. Le sue scorribande all`interno del palazzo cominciavano a venirle a noia. Ormai aveva visto tutto quello che c`era da vedere e sentiva confusamente che era il momento di andare avanti. Di cercare nuove cose da fare, nuovi interessi da coltivare e nuove vie da esplorare. Di crescere, insomma, per trovare il suo posto di regina, come si era ripromessa quando era arrivata lì.
Conosceva il valore dello studio perché aveva avuto un magister fin dalla sua prima infanzia, ad Orbe. Un tipo segaligno, che le girava sempre intorno con una bacchetta di salice in mano. Frate Bartolomeo, invece, era un omone gioviale e un po` rubizzo. Esibiva un naso a cavolfiore, due orecchie a sventola e un ventre pingue, retto da due gambette storte che sporgevano dal saio e gli davano un`andatura ballonzolante. Però sapeva tante cose e raccontava le storie di palazzo come nessuno.
Il suo stesso ruolo a corte faceva parte di una storia che le aveva raccontato Lotario, una sera, alle scuderie. - Frate Bartolomeo - aveva detto il giovane sedendosi sull`asse di uno stallo - è stata un`idea di mia madre e di Gerlando, l`abate di Bobbio.
- Bobbio? - aveva ripetuto Adelaide.
- Sì, Bobbio, un borgo a mezza giornata di cavallo da qui - aveva confermato Lotario. - Devi sapere che vi si trova il grande monastero eretto da san Colombano. Un luogo molto venerato in tutto il regno. E anche molto ricco. Cosa che, di per sé, basta a scatenare gli appetiti di chiunque. Sai cosa intendo, vero?
Adelaide, memore dei suoi trascorsi in Borgogna, aveva fatto cenno di sì con la testa. Allora Lotario era andato avanti. - Gerlando, però, non era uomo da piegarsi facilmente. Così, per protestare contro quelle aggressioni continue, organizzò una processione.
- Come, una processione?! - lo aveva interrotto Adelaide.
- Proprio così - aveva ripreso Lotario sorridendo. - Oh, ma non una processione qualsiasi. Questo no. L`abate Gerlando pensò a qualcosa di spettacolare. Prese le reliquie di san Colombano, le chiuse in una teca d`argento e le caricò su un carro trainato da buoi. Poi fece la strada fino a Papia, seguito dai monaci e da tutti i villani dei dintorni. I Papiesi quasi impazzirono per l`avvenimento. Il popolo si accalcò per le strade, acclamò il santo e scortò la teca fino all`altar maggiore di san Michele.
- E le minacce? - aveva chiesto Adelaide.
- Beh - aveva ribattuto Lotario sogghignando - come si fa a minacciare un santo, miracoloso per di più? Perché io ero troppo piccolo per ricordare, ma san Colombano fece molti miracoli prima di tornare a Bobbio. Uno toccò anche a me.
- Lo dici per burla - aveva protestato Adelaide dandogli un buffetto.
- Proprio no - aveva ribattuto Lotario. - E` vero. Quando mia madre mi portò in chiesa, avevo la febbre alta. Ma le reliquie mi sanarono subito, come d`incanto.
- Così hai avuto un miracolo…
- E anche un maestro perché, appena tornato a Bobbio, l`abate Gerlando mandò frate Bartolomeo a prendersi cura di me. Credo che dopo quella storia si sentisse un po` come il mio protettore.
- E io? - aveva chiesto Adelaide avvicinandosi. - Io, su quale protettore conterò?
Lotario aveva fatto il risentito. - Ma come! - aveva protestato portandosi una mano al cuore. - E` il caso di chiederlo? Tu potrai contare su di me. Sempre. - Poi le fossette sulle gote lo avevano tradito e i due giovani erano scoppiati a ridere insieme, felici di quell`intimità.
- Allora mi scorterai tu - aveva ripreso Adelaide. - Mi farai conoscere Bobbio, e Papia, e tutti gli altri posti che non ho visto ancora. Se questo è il tuo regno, è giusto che lo condivida anch`io.
- Penso di sì - aveva detto Lotario pensieroso. - Potrebbe essere un bene…
- Ma non su un carro, con i bagagli - lo aveva interrotto lei.
- E come, allora?
- A cavallo, accanto a te.
- Beh - aveva esitato lui - le ragazzine non vanno a cavallo…
- Può darsi - aveva replicato Adelaide prendendogli la mano. – ma io non sono più una ragazzina. Sono cresciuta ormai - e si era sollevata in punta di piedi, sfiorandogli le labbra con un bacio.
China sulle gioie di Lotario, Adelaide sentì imporporarsi il viso come allora, al ricordo di quel gesto. Aveva undici anni appena ed era la prima volta che baciava un ragazzo. Poteva sentire ancora il profumo di quelle labbra morbide, vedere il viso sorpreso di Lotario e l`infittirsi della ruga sulla sua fronte, mentre lei si girava e si allontanava di scatto per nascondere il rossore sulle guance e il fremito del sangue che le faceva battere forte il cuore.
All`improvviso, l`aria della stanza le sembrò viziata e l`atmosfera soffocante. Si allentò il soggolo con le dita, si alzò, andò alla finestra e fece scorrere le impannate. La luna illuminava il viridario e una brezza leggera faceva fremere le cime degli alberi nel bosco. Al di là del muro, oltre il cancello, s`intravedeva la sagoma della città che dormiva, cullando nel buio tutti i suoi sogni.
Dopo quel bacio, ad Adelaide era sembrato che i suoi si realizzassero tutti. C`erano stati altri baci con Lotario, e carezze più ardite che la facevano illanguidire. Era arrivato anche il cavallo, una puledra giovane e snella con il manto bianco appena spruzzato di grigio. Ad Adelaide aveva ricordato i gigli che sbocciavano sulle rive del suo lago, candidi e alteri. Così l’aveva chiamata Lili e ci aveva fatto subito amicizia, conducendola in interminabili passeggiate lungo i viali del giardino e nel bosco reale.
La prima uscita pubblica era stata un successo. Lili era splendida nella sua gualdrappa ricamata in giallo e oro, mentre Adelaide, inguainata in un sontuoso abito di velluto verde, cavalcava radiosa accanto a Lotario. Nei giorni successivi i due giovani avevano reso omaggio a san Michele, raccogliendosi in preghiera nella chiesa dei re, andata parzialmente distrutta nel terribile incendio degli Ungari. Quindi avevano visitato la grande cupola dorata di san Pietro, con le reliquie di sant`Agostino, e passeggiato nell`atrium Syri, dove la statua del Regisole dominava le adunanze cittadine.
Adelaide si era commossa alla vicenda di Teodote, rinchiusa in un monastero dal suo amante Cuniperto. Aveva pianto a santa Maria dove, nel grande cimitero longobardo, centinaia di colombe in legno, infisse in cima ai pali, aspettavano chi era caduto in terre lontane. E si era sentita orgogliosa per tutte quelle regine che l`avevano preceduta e tanto avevano amato, lottato, sofferto. Era convinta che anche lei, all`occorrenza, sarebbe stata capace di fare lo stesso.
Però era poco più di una bambina e, al pari delle ragazzine di quell`età, era attirata dalla folla come la luce attira le falene. Le piaceva aggirarsi tra i banchi del foro clauso nei giorni di mercato, seguire le processioni cittadine, perdersi nella grande fiera che si teneva ogni tanto appena fuori la porta Palatina. Provava gusto ad immergersi nei suoni e nei colori della città, inebriandosi del profumo del pane appena sfornato, delle urla dei mercanti, del chiacchiericcio delle comari e del parlottio fitto che il suo passaggio suscitava.
Era innamorata di Papia e i Papiesi erano innamorati di lei.
Anche a palazzo le cose andavano per il meglio. Corrado era tornato in Borgogna e Berta era andata a raggiungerlo. Quella partenza, sia pur dolorosa, aveva rappresentato per Adelaide anche l`ultimo distacco dal suo vecchio mondo e la piena consapevolezza di avere un ruolo importante in quello nuovo. Ormai ne era considerata la regina e sempre di più il suo tempo era preso dalle incombenze di corte: dare udienza, ricevere personalità, sovrintendere allo stuolo di paggi, servitori, maggiordomi. Un`attività intensa, che lei aveva imparato in fretta e sapeva sbrigare con fermezza, ma non senza un sorriso.
Eppure… Dove se n`erano andati tutti? Dov’era sparita quella torma di cortigiani di cui riusciva appena a rammentare il nome e di matrone di cui faticava a ricordare il viso? Dov’era finita quella moltitudine di servi, ossequiosi ad ogni suo cenno, ma pronti a defilarsi al primo segno di declino?
Alla morte di Lotario lei aveva voluto tumularlo nel sant`Ambrogio di Milano, là dove il suo giovane sposo era stato consacrato re. Ma alle esequie si era ritrovata quasi sola. Nella cappella dedicata alla Madonna c`era il suo amico più fidato, il conte Eldrico, quindi Manasse, fresco di nomina dopo la morte del venerando arcivescovo Arderico, e un pugno di canonici spauriti. Tra i notabili più influenti era presente soltanto Arduino il Glabro, conte di Torino, che non aveva potuto sottrarsi perché era nel suo castro che Lotario era spirato.
Gli altri, i marchesi, i conti, i vescovi e gli abati di tutto il regno, già stavano correndo a Papia per ingraziarsi i nuovi padroni. Quell`ingrato di Berengario, quella megera di sua moglie Willa e quello sciocco di Adalberto, che credeva di poter prendere il posto del re, prendendosi la regina.
Appoggiata alla finestra, Adelaide guardava la città e aveva voglia di battere i pugni, di gridare, di sfogare in qualche modo la sua rabbia e la sua solitudine. Invece abbassò il viso tra le braccia e pianse. In quel momento, quasi in risposta al suo appello muto, dietro le spalle sentì una voce.
- Mia signora? Mia signora? Siete qui, vero?
Poi la porta si aprì e nella penombra apparve un viso di fanciulla, incorniciato da una cuffietta da cui spuntava una massa di capelli rosso fuoco.
- Signora, sono io, Ingorde - ripeté la voce in tono preoccupato. - Brunello ci aspetta. E` quasi l`ora.
A quel punto, anche la ronda di sotto si fece sentire. Il rumore cadenzato dei passi risuonò nella corte sottostante, mentre i soldati iniziavano un altro giro. Adelaide fece una smorfia. Ecco com`era ridotta: in prigione. Nelle mani di un drappello di carcerieri e con una serva soltanto come compagna. Eppure, dalle prigioni si può scappare e le serve, a volte, possono essere le amiche migliori.
Quei pensieri la fecero sentire meglio. Si passò una mano sul viso, asciugandosi le lacrime, e si rassettò il velo. Poi chiuse le impannate e si abbassò a raccogliere la lampada, affrettandosi verso la porta dove Ingorde l`aspettava.