Dal ’68 torinese: memoria, storia e sogno di una protagonista
“periferica”. Maria Teresa Gavazza: Il sogno di una rivoluzione. Il mio 68 a
Torino (da Popoffquotidiano, 9 febbraio 2018)
Non inganni il sottotitolo nella copertina del libro di Maria
Teresa Gavazza (Il sogno di una rivoluzione. Il mio 68 a Torino, Pistoia,
Centro di Documentazione di Pistoia, 2017), non è affatto una rievocazione
percorsa sul filo del ricordo, delle emozioni temperate dal buonsenso,
fastidioso e noioso, che tende a rendere grigio ciò che è accaduto e si è fatto
cinquant’anni prima. Qui si tratta di una memoria che si fa storia
intrecciandosi onestamente con fatti, situazioni, stati d’animo di quel
presente ricostruito. L’autrice ha saputo trovare il giusto equilibrio tra la
testimonianza e la circostanza storica. Ha usato le carte del suo archivio,
conservate con attenzione e amore per cinquant’anni: volantini, ciclostilati,
articoli di giornali, libri comprati e letti in quel periodo, come se, fin da
quel momento, avesse deciso di utilizzare il tutto, un giorno, per scrivere di
cosa accadde all’Università di Torino a partire dall’Anno accademico 1967-68.
Assieme a una bibliografia e una documentazione esauriente e meticolosamente
usata, si muove la sua testimonianza, aiutata da frammenti di scrittura
diaristica presi sul momento. In questo viaggio di ritorno sul luogo della
storia vissuta, Maria Teresa incontra l’allora giovane studentessa, la
riconosce, la narra, la comprende e ascolta le sue esperienze, il suo vissuto,
la relazione con altri partecipanti al movimento studentesco torinese. È una
ricostruzione interessante, una novità perché ci racconta l’esperienza di una
protagonista “periferica”, di chi proveniva da un ambiente sociale diverso da
quello di altri partecipanti e leader torinesi del movimento, molti dei quali
si conoscevano per ragioni familiari e di ceto fin da adolescenti: avevano
frequentato le stesse scuole, i luoghi di villeggiatura e di svago, condiviso
relazioni amicali.
Nel libro si dà luce a quella componente studentesca non torinese
che partecipò al movimento provenendo dalla provincia. Le giovani maestre, si
legge, arrivavano a Torino dai paesi monferrini e dalle province piemontesi, sovente
erano ingenue e curiose. Pochi soldi, la città e professori intimidivano, anche
quelli propensi al dialogo. Vivevano una condizione di solitudine, tipica dei
fuori sede, timorose di fronte agli accademici, intimidite dal sentirsi
inadeguate, non all’altezza. Avevano però una loro formazione, che risulterà
utile nell’indurle a mettersi in gioco nel movimento studentesco. Erano
abituate a discutere e partecipare nei gruppi cattolici del post-concilio,
stavano per leggere Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani.
La comunità di Palazzo Campana
Senza il ’68, senza l’occupazione della sede universitaria di
Palazzo Campana a Torino, l’incontro e la fusione tra studenti di origine
torinese e fuori sede non ci sarebbe stato. Né si accorsero, quando diedero
inizio all’occupazione del novembre 1967 che stava per avere inizio qualcosa di
dirompente. Le assemblee, gli interventi di sgombero della polizia, la
resistenza passiva, i gruppi di lavoro (contro corsi), costruirono
repentinamente la consapevolezza collettiva e formarono una comunità
studentesca. Quel che avvenne in quei mesi rappresentò l’avvio della “nostra
liberazione”, scrive l’autrice, la scoperta della democrazia diretta, il
trionfo della politica partecipata in prima persona, senza alcuna delega a
organismi burocratici, senza vertici centralizzati, fondata su reti informali,
le assemblee, insofferente verso categorie politiche di apparato, ma non esente
da figure carismatiche quali erano i leader.
A dispetto di alcuni articoli di cronaca del quotidiano piemontese
“La Stampa”, che indicavano in poche decine gli occupanti e partecipanti alle
assemblee, le quasi cinquecento denunce della polizia verso altrettanti
studenti e studentesse smentivano quegli articoli. D’altronde, lo stesso
quotidiano si contraddisse pubblicando l’intero elenco con nomi e cognomi dei
denunciati, il 34% dei quali erano giovani studentesse. Un dato che segnalava
una novità importante: la partecipazione della componente femminile al
movimento come soggetto attivo e pensante. Un primo inizio del partire da sé,
come donna in quanto donna, si dirà pochi anni dopo, che conteneva uno sguardo
interessato ma critico sulla liberazione sessuale. Domanda che le coglieva
impreparate e sospettose che fosse un’esigenza strumentale e maschilista. Se
poche furono le donne leader, molto più diffusa fu la loro presenza nelle reti
intermedie della vita quotidiana del movimento.
Tra riforma e repressione
L’intervento delle forze dell’ordine all’Università, la
repressione accademica e istituzionale ebbe delle conseguenze. Dalla “festa”
nel palazzo occupato, dal senso di gioiosa libertà, si passò alla conoscenza
del dolore unito all’angoscia e qualche volta alla disperazione, per i
provvedimenti disciplinari e polizieschi. Chi veniva dalla provincia, ricorda
l’autrice, ogni fine settimana ritornava nei piccoli paesi di origine, i
genitori, i parenti e vicini di casa, chiedevano ossessivamente dei cortei,
delle manifestazioni, delle occupazioni e giudicavano sulla base del sentito
dire comune.
La scelta della repressione da parte delle istituzioni comportò la
riduzione del conflitto a problema di ordine pubblico. Il movimento reagì
bloccando l’attività accademica, ciò esasperò lo scontro e i toni della
contestazione, riducendo i margini del dialogo, pregiudicando una possibile
soluzione riformista alla contestazione, auspicata sia dai docenti più
illuminati che dall’ala più moderata del movimento. I fatti che accadevano
all’Università torinese in quei mesi avevano prodotto una divisione all’interno
del corpo accademico: una parte minoritaria si era schierata con gli studenti e
appoggiava le loro richieste di una riforma della didattica, dell’insegnamento
e dell’Università in generale. Un appoggio al movimento era venuto anche dalla
sinistra locale e da quanti provenivano dall’esperienza del Partito d’Azione.
La mano tesa del riformismo accademico si manifestò soprattutto da parte della
Facoltà di Magistero - dove vi era un gruppo nutrito di docenti democratici che
appoggiavano il novello Preside Guido Quazza - che aprì alle richieste di
innovazione didattica del movimento introducendo riforme radicali nel metodo e
nel merito della formazione culturale degli studenti. L’incontro con Guido
Quazza, docente di storia contemporanea, definito un maestro, cambiò totalmente
la vita della protagonista che passò da pedagogia (ove era iscritta) a storia
contemporanea, disciplina che offriva la possibilità di confrontarsi con un
sapere vivo, attuale, studiato e analizzato con innovativi strumenti didattici,
storiografici e interpretativi.
L’impegno e la partecipazione politica mordevano la nuca. Nel
movimento studentesco stava avvenendo il passaggio dalla condizione “di
studenti a quella di rivoluzionari” che portò all’uscita dall’Università per
unirsi ad altri conflitti, a cominciare da quello operaio che si stava avviando
alla Fiat e rappresentava la fine della perbenista pace sociale nella città.
L’incontro tra operai e studenti è così raccontato nella sua quotidianità:
“prima dell’alba, insonnolite e infreddolite, partiamo per volantinare davanti
alle porte della Fiat. Per noi studentesse è un’esperienza del tutto nuova,
fuori dalla nostra identità di giovani donne provenienti dalle province
piemontesi”.