I militari meridionali “sbandati” dopo l’8 settembre e l’inizio della Resistenza armata in Italia
Quello che vi presentiamo qui è un testo molto particolare. Come potete già intuire dal titolo, parla essenzialmente del contributo fornito dai militari meridionali alla lotta di Liberazione. Contributo che è già stato affrontato altre volte, ma sempre in modo provvisorio e non approfondito.
Qui, invece, Ragonesi lo affronta in maniera sistematica, ricorrendo a numerose fonti e aggiungendo una partecipazione e un equilibrio che sono i tratti distintivi del suo procedimento. E, di ciò lo ringraziamo sentitamente (ndr)
La risposta alla storiografia tradizionale,che ha tentato di occultare la partecipazione meridionale alla guerra di liberazione per motivi ideologici ispirati prevalentemente al “Vento del Nord”, è stata data da quei militari “sbandati” delle varie armi e delle diverse regioni del Sud che con l’8 settembre 1943 non hanno potuto raggiungere le loro case e che sono stati costretti a sopravvivere lungo la fascia delle Alpi e degli Appennini anche con l’organizzazione di bande armate. Per costoro l’andare alla macchia diventava la via più normale e il salire in montagna la più naturale giacché negli anfratti del terreno si potevano rinvenire i mezzi di difesa e sopravvivenza fisica, i nascondigli più adatti ad evitare i reparti tedeschi che calavano velocemente e ferocemente dai valichi alpini e appenninici ad occupare tutto il territorio italiano disponibile dopo la fuga a Brindisi del re, di Badoglio e degli alti comandi, in plaghe più rassicuranti, dalle parti della Puglia già raggiunta dagli anglo-americani.
Nel caos generale provocato da un armistizio di incerta lettura e non facile decriptazione, i soldati si allontanavano dalle caserme; i più vicini andavano a casa,ma gli altri, ed erano in maggioranza meridionali, non potevano raggiungere le loro lontane abitazioni e si aggiravano come ladri per le vie laterali e meno frequentate. Si mettevano in abiti civili e si camuffavano. Per analogia, anche molti ex prigionieri di guerra inglesi, americani, russi e slavi si diedero alla macchia per il terrore di essere presi dai tedeschi e ben presto organizzarono bande e fornirono un notevole contributo alla lotta di liberazione. Essi erano ufficiali e soldati già rinchiusi nei campi di concentramento in Italia e con l’8 settembre furono liberati o si liberarono, popolarono le montagne e iniziarono la Resistenza armata confluendo nella guerra di liberazione. Costoro collaborarono in maniera significativa alla lotta armata e spesso diedero inizio alla formazione dei primi gruppi di combattenti. Lo sloveno Anton Ulkman detto Moro, per esempio,giunse a comandare una delle più importanti formazioni partigiane, la famosa divisione garibaldina Cichero, mentre il serbo Grga Cupie detto Boro guidò la divisione Mingo, entrambi in Liguria. Gordon Lett, ufficiale inglese catturato a Tobruk e condotto in Italia, dopo essere stato liberato l’8 settembre dal campo di prigionia a Veano presso Piacenza, assieme ad altri militari britannici creò un Battaglione internazionale con sede a Rossano di Zeri in Alta Lunigiana e diede un grandissimo contributo alla lotta di liberazione, come riferisce lui stesso in diverse memorie e specialmente nelle Vicende della Resistenza italiana, Edizioni Librarie Italiane, Milano 1958.
Ma di non minore importanza è stata l’attività resistenziale di altri ex prigionieri slavi e sovietici collocati nell’Italia centrale, in Umbria,o l’azione di altri combattenti inglesi che si distinsero per il loro coraggio, come George Hilary, tenente comandante di un gruppo di ex prigionieri della brigata GL Italia Libera nel Vicentino, caduto sul Monte Grappa il 20 settembre 1944, o gli undici componenti del suo gruppo, tutti britannici, sette dei quali impiccati a Bassano, o il sottufficiale sovietico F.A.Poletaev, ex prigioniero di guerra divenuto partigiano e militante nella divisione Cichero, caduto in uno scontro a Cantalupo Ligure il 2 febbraio 1945, o il maggiore Harold William Tilman, famoso alpinista e autore di libri di memorie, che ha reso possibili numerosi lanci aerei ad Asiago per destinarli all’area del Bellunese e del Cansiglio sopra Vittorio Veneto, l’altopiano delle Prealpi Carniche tra le province di Pordenone, Belluno e Treviso, per affrontare i nazifascisti (cfr.H.W. Tilman, Un maggiore inglese tra i partigiani, a cura dell’Istituto storico bellunese della Resistenza, Belluno 1981)
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Alcuni militari italiani preferirono aderire alla Repubblica Sociale di Salò per trovare cibo, soldi, rifugio e perfino una certa sicurezza psicologica e, se vogliamo, una certa continuità di percorso ideologico. Questa era la realtà, e questa situazione di fuga generale o di rinnovata ricerca di accasamento nell’immediata dissoluzione dell’esercito regolare creò le premesse per lo scontro civile e talvolta davvero fratricida tra repubblichini e “banditi” e determinò quindi la formazione dei primi nuclei partigiani dislocati in tutte le regioni centro-settentrionali. La fuga dei soldati è stata più decisiva di quella dei loro comandanti e delle alte gerarchie militari e politiche, ai fini della formazione del partigianato nelle montagne. Finiva così la compattezza delle forze regolari e delle istituzioni unitarie e sorgeva il movimento partigiano con la massiccia partecipazione dei militari meridionali in cerca di nuove “dimore”, ormai sciolti dal vincolo di fedeltà alla monarchia ed al regime totalitario. La guerra proclamata dallo Stato fascista, quella iniziata nel giugno 1940 con l’aggressione della Francia, terminava qui, l’8 settembre 1943, e da qui cominciava ufficialmente il movimento resistenziale, sostenuto all’inizio in maniera particolarmente intensa da quei militari lontani dalle loro abitazioni e dai loro paesi che furono costretti ad un’esistenza fuori sede, in mezzo ai disagi estremi, perché non intendevano aderire alla Repubblica Sociale Italiana, né mettersi a disposizione dei tedeschi, dopo averne conosciuto e sofferto gli impulsi irrefrenabili di prepotenza, aggressività e superiorità razziale.
Si abbandonarono dunque velocemente le caserme e si cercarono le montagne, prima come rifugio e poi come luogo dal quale ripartire per dare l’assalto ai nemici nazifascisti e per la riorganizzazione del nuovo movimento nazionale. Per merito personale o, piuttosto, per necessità di aver salva la vita, furono pertanto i soldati meridionali i più presenti e attivi nelle prime bande partigiane ed i più decisi a raccogliere munizioni, mitragliatrici, bombe a mano e strumenti bellici, ed a combattere il nazifascismo. Allo stato attuale della documentazione non si possono tentare precise e decisive quantificazioni, ma è certo che la loro presenza nelle formazioni fu notevole, come sosteneva del resto il famoso scrittore e umanista torinese Augusto Monti alla fine della guerra in una sorta di resoconto statistico “ad occhio”.
Le ricerche negli archivi hanno dato risultati interessanti, sia pure non definitivi, di una presenza quantitativamente apprezzabile di ex soldati meridionali “sbandati” a capo di bande partigiane o all’interno delle stesse con compiti subalterni, in Liguria, in Piemonte, in Lombardia, in Veneto, in Friuli-Venezia Giulia, in Emilia Romagna, in Toscana, in Umbria,nelle Marche e nel Lazio. L’impossibile ritorno a casa creò insomma le condizioni per una ripresa imprevedibile della guerra con ben diverse finalità, anche se non venne meno l’incrostazione spontaneistica in parecchi di quei soldati del Sud affamati e laceri ,ma dotati spesso di buona educazione. Per molti di loro prevalse poi la disciplina e in alcuni persino lo spirito costruttivo della direzione politico-strategica. Le parole di Giaime Pintor sembrano rivolte proprio a loro:“I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa, il senso delle offese inflitte e subìte, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti […] non erano solo dei vinti,erano un popolo di morti” (G. Pintor , Il sangue d’Europa, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi 1965,pp.180-181).
I vinti in tal modo si trasformavano, strada facendo, in vincitori morali, talvolta in comandanti partigiani; e furono loro che organizzarono le prime bande, liberarono poi le grandi città del nord o perirono negli orribili eccidi nazifascisti. La liberazione di Torino fornisce un’idea adeguata dell’attiva e massiccia presenza di meridionali “sbandati”, come la forniscono per tutto il Piemonte i tanti nomi degli ex soldati di leva meridionali che si immolarono per la libertà e la democrazia e che resistettero con onore, come il siciliano di Caltanissetta, già tenente di cavalleria a Pinerolo, Pompeo Colajanni detto Nicola Barbato, il leggendario protagonista dei fasci siciliani di fine Ottocento. Per la Resistenza in Liguria, invece, emergono i nomi gloriosi di Antonio Rossi di Cardeto, di Salvatore Rizzo di Amantea e di Vincenzo Errico di Verbicaro in provincia di Cosenza caduto l’8 luglio 1944 a Grifola di Borgotaro tra Piacenza e Parma, combattendo valorosamente contro reparti tedeschi. E così per i militari lucani, pugliesi e sardi; e per i siciliani organizzatori di bande e morti per la difesa della Patria: Giacomo Crollalanza di Modica, già capitano dell’esercito, caduto in combattimento nel Bosco di Corniglio sull’Appennino tosco-emiliano il 17 ottobre 1944; Raimondo Saverino (detto Severino) di Licata ,fucilato nella piazza di Borzonasca nei pressi di Chiavari il 21 maggio 1944; Filetti Salvatore di Acireale caduto ad Oncino, in provincia di Cuneo, a seguito di fucilazione nazifascista l’1 aprile 1944; Anastasi Alfio, nato ad Acireale il 13 settembre 1914, appartenente alla Brigata della Div. Piacenza, fucilato dai nazifascisti il 16 dicembre 1944 a Cicogni di Pecorara in provincia di Piacenza; Nunzio Barbagallo di Bronte, caduto l’8 settembre 1943 a Cremona, Giuseppe Marino di Catania, giovane partigiano impiccato dai nazifascisti ad un lampione del Palazzo del Corto a Montepulciano in provincia di Siena dopo due giorni di interrogatori e torture da parte della Gestapo nel Lager di Abbadia e del quale, su indicazione di un amico sacerdote e docente, ho potuto leggere una targa dal tono calamandreiano: “Il capestro nazi-fascista qui strangolava il 23 giugno 1944 la ventenne esistenza del Patriota Giuseppe Marino da Catania. Al nemico, ai traditori, ai pavidi, agli ignavi il suo nome grida <la libertà più della vita>. Montepulciano, 18-2-1945”.
E furono straordinariamente attivi e si sacrificarono per la “nuova” Patria tanti altri siciliani, calabresi, sardi, campani, abruzzesi, lucani e molisani la cui fine è incisa sul marmo quasi di nascosto, con pudore, nelle lapidi e nei cippi di città e di montagna sparsi per tutto il centro-nord, e poco nota e mai celebrata forse nei loro stessi paesi. E dei tanti ragazzi siciliani ricoperti di gloria la ricognizione è oggi affidata ai lunghi elenchi compilati con fatica, passione e diligenza da Carmela Zangara dell’Istituto della Resistenza di Catania.
La vita sulle montagne e nei luoghi impervi di questi ex militari meridionali non è stata facile. Solo la vulgata resistenziale ha potuto parlare di una straordinaria socializzazione, se non proprio di una fraternizzazione, tra tutti i partigiani e tutte le popolazioni locali. Non è stato sempre così specie per i partigiani estranei all’ambiente,per i “forestieri”.Lo dimostrano chiaramente alcuni episodi da me illustrati in altra sede, come per esempio il doloroso caso di Dante Castellucci detto Facio, quel caso del capo partigiano calabrese, amico e compagno dei fratelli Cervi, ucciso ad Adelano di Zeri in Alta Lunigiana dai suoi stessi compagni di lotta (o che tali avrebbero dovuto essere) per motivi ancora ignoti, e premiato con medaglia d’argento alla memoria con una motivazione carica di dolorosa ironia, in quanto la morte è stata attribuita ai nazifascisti che gli avrebbero teso un agguato quando tutti nel villaggio sapevano com’era avvenuta e chi ne era stato il responsabile. E sono state inventate tante leggende assurde e contraddittorie, facendo scempio della logica comune e mettendo in discussione la serietà della storiografia resistenziale.
La vita dei partigiani “foresti” era davvero rischiosa nel caos di quelle giornate d’autunno del !943: “Nonostante la caccia serrata dell’esercito tedesco, non tutti i soldati sbandati sono catturati, né tutti i fuggiaschi sono in grado di raggiungere rapidamente le proprie case, e si preparano per loro momenti durissimi[…]Nei giorni immediatamente successivi alla disgregazione dell’esercito, decine di migliaia di soldati vagano sul territorio nazionale, aggregandosi in zone abbastanza isolate da rappresentare un iniziale riparo, privilegiando quindi montagne e vallate delle Alpi e della dorsale appenninica. Mescolati a loro troviamo migliaia di prigionieri anglo-americani, fino a quel momento detenuti in campi di prigionia sorvegliati dal regio esercito, e poi slavi, russi catturati dalle armate tedesche sul fronte orientale nell’espansione verso est. In particolare in Piemonte,nelle vallate sopra Cuneo, la presenza di militari è più consistente in conseguenza della dissoluzione della IV armata in rientro dalla Francia, ma anche in Lombardia, in Veneto, in Friuli e sulla dorsale appenninica si determinano notevoli concentrazioni di soldati sbandati” (Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp.22-23).
Una conferma autorevole la forniva indirettamente il partigiano azionista Giorgio Agosti sui gravi disagi del partigianato forestiero: “Conviene premettere che in genere l’atteggiamento della popolazione nei confronti delle formazioni partigiane è andato peggiorando. [Il contadino] odia il fascista, ma non esita a denunciare il partigiano e in generale -come al tempo delle guerre di ventura- si preoccupa soltanto di tener lontano e l’uno [il fascista] e l’altro [il partigiano] Le campagne, che in un primo momento il moto partigiano aveva tratto dal torpore, oggi sono allarmate, domani potranno diventare decisamente ostili. Il contadino che qualche mese fa si arruolava nella banda partigiana, oggi preferisce restare a custodire il suo campo armato del fucile da caccia e costituisce con altri compagni piccole squadre di difesa” (in R.De Felice, La guerra civile. 1943-1945 , Einaudi,Torino1997,p.319).
Le relazioni dei parroci ai loro vescovi aggiungono ulteriori elementi di conoscenza ed altre considerazioni che mettono in forte difficoltà chi affronta la fatica della loro lettura con i parametri tradizionali: “Noti, Eminenza, che qui la guerra l’abbiamo sentita due volte:prima quella dei partigiani e poi quella delle truppe. Le vittime della prima sono specialmente a Camaggiore un numero rilevante rispetto a quello della seconda […] Tre volte mi sono entrati in casa a me finti partigiani e mi hanno portato via il denaro in contanti. Ai proprietari di questa parrocchia e delle limitrofe i partigiani hanno portato via tutto, o quasi tutto, in roba e denari entrando prima di notte nelle case e poi anche di giorno” (Relazione di don Giuseppe Ranieri al cardinale fiorentino Elia Dalla Costa, in Chiese Toscane. Cronaca di guerra 1940-1945, a cura di Giulio Villani e Fabrizio Poli, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1995, p.118). Un’altra Relazione inviata alla Curia di Massa-Carrara contiene giudizi ancora più pesanti sui partigiani che operavano nell’area della Bassa Lunigiana: “Il comportamento dei partigiani operanti nella zona di Podenzana ha portato alla popolazione più male che bene. La loro apparizione si realizzò il 23 luglio 1944 con la discesa massiccia dai monti per rifornirsi di viveri a danno della gente del luogo […] Riorganizzate le bande una lotta sorda si era scatenata fra due capi:Tullio e Piero ed esplose poi in guerra aperta. Anche alla Chiesa di Podenzana fu affisso un foglio in cui si leggeva che Tullio aveva messo una taglia di L.50.000. per chi gli avesse consegnato il rivale, mentre questi aveva promesso, così mi fu riferito, L.12.000 a chi gli avesse portato Tullio” (Relazione di don Domenico Parenti del 4 gennaio 1974, compilata sulla base di “appunti scritti a Podenzana durante la guerra”, depositata nell’Archivio della Cattedrale di Massa e raccolta da don Ugo Berti nei suoi preziosi volumi di documenti parrocchiali sulla guerra in terra apuana).
Bisogna dire onestamente che non tutti nel mondo del partigianato nutrivano un rispetto verso la popolazione locale,che a sua volta rispondeva con la diffidenza e la scarsa disponibilità alla collaborazione. Spesso l’arruolamento contadino, quando si effettuava, avveniva sulla base di antiche e consolidate amicizie locali con il comandante e con i membri del gruppo, e ciò si comprende facilmente. Di fronte alle umane simpatie, alle reazioni psicologiche immediate e alla vita locale di relazione riescono più naturali le intese e più sopportabili le privazioni, le fatiche ed i grandi pericoli. Prendendo le mosse da questi sentimenti, si può ancora cogliere tutto il dramma vissuto sui monti e nelle valli del Piemonte o della Liguria o del Veneto dal partigiano in generale e particolarmente dal partigiano di estrazione “foresta”, e soprattutto se di provenienza “sudista”. Nelle memorie titolate La riscossa dal 25 luglio alla liberazione (Rizzoli,Milano 1948), Raffaele Cadorna che comandava il Corpo Volontari della Libertà sembra riferirsi a questo dramma scrivendo quanto segue con imprevedibile acutezza e profondità psicologica:“Che le popolazioni siano state, nel loro complesso, favorevoli alla lotta partigiana, non v’ha dubbio. Né poteva essere altrimenti, dato l’odio suscitato dai crudeli sistemi adottati dai tedeschi e dal disprezzo verso la reincarnazione del fascismo nella Repubblica Sociale, ma soprattutto il fatto che, la maggioranza dei partigiani essendo reclutati nella zona, non poteva mancare la solidarietà delle famiglie verso i loro figlioli[…] Ma il favore delle popolazioni aveva limiti nel tormento cui erano esposte. Le fucilazioni, gli incendi di abitati, le violenze, l’asportazione di ogni bene che normalmente seguiva l’azione dei reparti tedeschi o fascisti incaricati di eseguire rastrellamenti come rappresaglia per le azioni offensive dei partigiani, deprimevano ed eccitavano al tempo stesso profondamente le popolazioni[…] le vittime erano indotte a inveire anche contro il partigiano” (in R..De Felice, op.cit, p.330).
Si tratta di una considerazione interessante che mette in evidenza, in tempi in cui certe indagini storiografiche non erano neppure immaginabili, data la visione astrattamente, rigidamente e ingenuamente apologetica della Resistenza, la chiara visione della situazione di rischio per la presenza del partigiano “foresto” che si è trovato catapultato in luoghi a lui poco noti,se non ostili. E quindi questo partigiano è degno di una speciale considerazione storiografica, poco commemorativa e celebrativa, siamo d’accordo, e senza farne a tutti i costi un eroe resistenziale contrapposto al vecchio eroe dell’antica mitologia.
Il sentimento di antipatia verso il partigiano di qualsiasi genere ed estrazione politica e geografica da parte delle popolazioni locali veniva esasperato nei momenti di maggiore pressione e crudeltà delle forze nazifasciste, specie in occasione dei rastrellamenti condotti in grande stile. Quando la rappresaglia diveniva più dura, allora anche le relazioni tra i partigiani e le popolazioni locali si facevano più conflittuali. La ferocia nazifascista faceva aumentare la paura dei contadini e poteva fare scattare la delazione contro il povero partigiano meridionale o settentrionale con tutte le conseguenze del caso.
Molti fattori potevano indisporre,e in effetti indisponevano il mondo contadino nei confronti del partigianato: le requisizioni più o meno prolungate, il disordine che veniva provocato nelle famiglie, il saccheggio, le molestie, gli abusi, gli atti di prepotenza,ecc. Il contadino forniva spesso ai partigiani un’ospitalità forzata, priva di entusiasmo, e si sentiva sollevato quando il gruppo partiva. Questa situazione è stata affrontata in letteratura, ed evitata con molta cura dalla storiografia, ma ciò darebbe un’immagina più vera della Resistenza, che non può essere privata di atteggiamenti e sentimenti poco favorevoli. E tutto ciò incrementa d’altra parte i meriti dei partigiani capaci di resistere non solo al freddo ed alla fame, che sono sempre dei terribili nemici, ma anche alla mancanza di ospitalità calda, generosa e solidale.“I contadini li ricevevano solo con un cenno ed un sospiro, indicavano il posto e la paglia -non prestavano più coperte- poi salivano al piano sovrano per rincuorare le loro donne prese da attacchi di cuore”(B.Fenoglio, Il partigiano Jonny, Einaudi 1992,p.295). E doppiamente meritevole d’attenzione doveva essere il partigiano meridionale “sbandato” che aveva abbandonato la sua caserma e aveva scelto la strada più difficile, remota e faticosa. Anche questa situazione rientra in modo problematico e tragico nella storia vera di una Resistenza reale e non in quella immaginaria più volte ripetuta ed offerta all’ignaro e benevolo lettore.
Gli istituti storici regionali della Resistenza potranno restituirci forse un giorno i nomi completi dei tanti combattenti meridionali che hanno partecipato seriamente e attivamente alla guerra di liberazione nelle regioni del centro-nord, ma non ci daranno sicuramente la loro condizione esistenziale e la loro forza morale e ideale. Eppure anche di ciò bisogna occuparsi, perché a loro la storiografia, a cominciare da Federico Chabod nelle famose lezioni parigine del 1950 su L’Italia contemporanea(1918-1948), tradotte a cura di Simona Martini Vigezzi e Sergio Caprioglio e pubblicate da Einaudi nel 1961, ha voluto negare l’onore meritato sul campo di una citazione per l’attiva partecipazione, giocando con la divisione dell’Italia in due o tre pezzi e togliendo al Sud, tranne Napoli, persino la fredda e lontana percezione resistenziale. Anche Giampiero Carocci ha voluto insistere con l’affettamento geo-politico dell’Italia: “Il Mezzogiorno quasi non conobbe il dominio tedesco né la Resistenza. L’unico episodio di rilievo fu l’insurrezione antitedesca di Napoli del 27 settembre–primo ottobre 1943. Poiché invece nelle regioni del centro e soprattutto in quelle del nord la Resistenza durò a lungo, mentre le armate alleate avanzavano lentamente lungo la Penisola, si ripropose con forza accresciuta l’antica divisione tra il sud e il nord. Questa volta la divisione non fu determinata dall’economia, fra l’arretratezza del sud e lo sviluppo del nord, ma fu piuttosto determinata dalla politica, fra il sud monarchico che praticamente quasi non conobbe la Resistenza e il nord repubblicano e antifascista” (G.Carocci, Storia dell’Italia moderna. Dal 1861 ai nostri giorni, Newton Compton Editori, Roma 1995,pp.59-60).
Abbiamo visto quanto sia non esatto l’assunto carocciano. Solo Roberto Battaglia e Giuseppe Garritano si erano accorti della vera genesi del moto resistenziale armato, là dove esso è stato effettuato con la partecipazione unitaria di meridionali e settentrionali, di ex militari e di civili, al primo sorgere del movimento partigiano in luoghi come Boves in provincia di Cuneo, Bosco Martese nel Teramano, Colle S. Marco sopra Ascoli Piceno, Porta S. Paolo a Roma dove moriva nello scontro con i tedeschi l’insegnante liceale Raffaele Persichetti, Carrara sul passo della Foce dove gli alpini del disciolto battaglione Val di Fassa, assieme a molti cittadini, combatterono l’8 settembre 1943 contro i “nuovi”nemici. E poi nel Bellunese, nel Trevigiano, nel Vicentino, in Liguria, in Emilia, in Toscana, ecc.(cfr. R.Battaglia-G.Garritano, Breve storia della Resistenza italiana, EinaudiTorino1955, pp.67-71).
Ma questi Autori non seppero o non vollero rappresentare il motivo della provenienza regionale dei militari “sbandati”, perché avrebbero dovuto rompere l’apologetica resistenziale e discutere criticamente della crisi politica e civile causata dal trauma dell’8 settembre in terra, in mare e negli spazi extraterritoriali come a Cefalonia, a Corfù, in Albania,in Slovenia, in Croazia,nel Montenegro, nell’Istria, ecc. Erano nella sostanza delicati atteggiamenti e argomenti culturali e psicologici che bisognava raccogliere e portare alla tematizzazione storiografica, e determinare le ragioni della scelta di campo da parte dei partigiani combattenti nei luoghi in cui essa si poteva verificare senza trionfalismi e con realismo critico, come nel caso del marinaio siciliano Antonino Siligato che non sapeva inizialmente, subito dopo l’8 settembre, cosa fare ed a quale entità istituzionale aderire, se alla Repubblica Sociale Italiana o al Regno del Sud, se allo schieramento nazifascista o a quello democratico.
Ridurre gli atteggiamenti umani a cavallo dell’8 settembre alla netta contrapposizione tra fascismo e antifascismo e tra monarchia e repubblica, e alla lotta armata tra repubblichini e partigiani, non è corretto e certamente non è soddisfacente in sede storiografica, almeno nel maggior numero dei casi in cui la coscienza democratica e costituzionale è maturata più lentamente nel corso della guerra ed a seguito del crollo del regime mussoliniano. Ad eccezione dei vecchi antifascisti che avevano contestato il sistema totalitario sin dall’inizio della sua configurazione e che avevano subìto l’esilio o il carcere, gli altri antifascisti di nuova formazione lo hanno contestato soprattutto nel corso della disastrosa guerra mondiale e nella lotta di liberazione. Questo è stato, bisogna dirlo, il “breve viaggio” verso l’antifascismo, non meno faticoso del “lungo viaggio” attraverso il fascismo di molti intellettuali.
Ed erano specialmente i più giovani ad affrontare il più breve itinerario antifascista sulle montagne. Così,prima di approdare alla definitiva scelta resistenziale e partecipare con molta consapevolezza alla lotta armata per la liberazione del territorio nazionale dai tedeschi e dai loro alleati, con il successivo conseguimento, alla memoria, di medaglia d’oro al valor militare, il marinaio Antonino Siligato, detto Nino, nato a Limina in provincia di Messina il 30 dicembre 1920 e morto a Codolo di Zeri in provincia di Apuania (oggi Massa-Carrara), si era arruolato l’8 settembre con i repubblichini nella Decima MAS di Junio Valerio Borghese, di stanza a La Spezia, che abbandonò soltanto dopo quattro mesi per aderire alla Resistenza in Val di Taro nell’Appennino ligure-tosco-emiliano. E qui si distinse subito per generosità, coraggio e competenza tattica, tanto che gli fu affidato il comando della compagnia esploratori della Brigata “Cento Croci” che operava tra la Val di Taro e la Val di Vara nei monti sopra La Spezia.
Le imprese militari eccezionali di Siligato, assieme alla sua forte personalità ed ai tratti generosi della sua prassi, si trovano nella descrizione di don Luigi Canessa, il cappellano delle formazioni partigiane, nel suo libro Sedici mesi di guerriglia sugli Appennini liguri-emiliani. Siligato era un ottimo marinaio, aveva preso parte, sull’incrociatore “Eugenio di Savoia” il 14-15 giugno 1942, alla battaglia di Pantelleria contro gli inglesi, a seguito della quale aveva conseguito la Croce di guerra, era diventato sergente e venne assegnato al deposito di La Spezia, dove rimase fino all’armistizio dell’8 settembre. Poi, nel caos generale della fuga, la sua prima scelta repubblichina, sulla quale non si può fare scendere il silenzio né è lecito esprimere dall’alto un drastico giudizio, ma ciò che è doveroso per la storiografia è compiere un atto di comprensione della prima opzione avvertita e vissuta inizialmente come patriottica ed in continuità con la precedente attività militare. La nuova medaglia al valore resistenziale è stata tuttavia ben meritata e risulta coerente con la precedente benemerenza che gli era stata attribuita. Ed è stato bene ricordarlo con l’iscrizione nel cippo di Codolo:“Dopo l’8 settembre 1943 fu tra i primi ad intraprendere la lotta partigiana divenendo combattente di terra come lo era stato sul mare. Assunto il comando di un plotone partigiano, trascinò i suoi uomini in epiche gesta che cinsero la sua fronte con l’aureola dell’eroismo. Prescelto per un’audace azione di collaborazione con paracadutisti alleati, la portava a termine senza esitazione benché febbricitante e, mentre con i suoi compagni era sulla via del ritorno, veniva attaccato di sorpresa da forze nazifasciste. Cadeva mortalmente colpito […]Codolo di Pontremoli,20 gennaio 1944”.Un piccolo errore cronologico per eccesso di apologetica non impedisce di usare la testimonianza in modo utile, come l’altro errore geografico di Codolo fatto rientrare nel Comune di Pontremoli anziché in quello di Zeri in Alta Lunigiana non impedisce la precisa localizzazione dell’evento.
Non mi soffermo su altri particolari relativi alle imprese eroiche di Siligato, aggiungo soltanto che per fare una buona storiografia, oggi, non è necessario spingere il pedale dell’apologia. L’analisi critica della documentazione deve procedere di pari passo con la narrazione, e questa non può allontanarsi dalla spiegazione degli eventi e delle azioni umane. Io ho solo cercato di dimostrare criticamente, come ho fatto in altre occasioni (v. soprattutto S.Ragonesi, La Resistenza del Sud e l’unità nazionale, in “Nuova Secondaria” di Brescia, n.9, maggio 2013), che il Meridione ha da parte sua conosciuto molto da vicino la Resistenza e che non è buona storiografia quella che vuole escluderlo dal movimento resistenziale con argomenti artificiosi e fortemente ideologizzanti. Non si può proporre ormai l’antica vulgata storiografica di un Sud passivo ed inerte nella lotta contro il nazifascismo. Il Sud vi ha partecipato intensamente sia sul suo terreno, pure se per breve tempo, che in terreni lontani. Questa consapevolezza critica dovrebbe spingere ormai a nuove ricerche e ad interpretazioni più coerenti, con l’utilizzazione completa di tutte le fonti, comprese le preziose relazioni dei parroci che si trovano negli archivi delle curie vescovili, e senza le ingiustificate o ingiuste mitologie. Se la mia ricostruzione ha un senso, questo non può che essere rintracciato nell’individuazione di un fattore inedito, o non debitamente rappresentato, ed è il processo al quale hanno partecipato gli uomini delle diverse regioni d’Italia nella crisi della falsa identità patriottica.