Tra storiografia resistenziale e memorialistica autoreferenziale. ...Le falsità storiche sulla tragica fine del partigiano calabrese Dante Castellucci, detto Facio. ...
Sul partigiano Dante Castellucci,detto Facio, nato a Sant’Agata di Esaro in provincia di Cosenza il 6 agosto 1920 e ucciso proditoriamente dai suoi stessi compagni di lotta ad Adelano di Zeri in provincia di Apuania (oggi Massa-Carrara) la notte del 21 luglio 1944, non sono mancate nel corso degli ultimi anni le ricostruzioni biografiche e le interpretazioni della sua morte da parte di molti studiosi e cronisti locali e nazionali. La mia rievocazione si aggiunge adesso alle altre, ma senza il grave rischio, almeno lo spero, di sovrapporre agiografia ad agiografia, mistificazione ideologica a mistificazione, invenzione fantastica ad invenzione. Solo il saggio di Carlo Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento, edito da Donzelli nel 2007, è un pregevole testo e un dignitoso tentativo di fare vera luce e di realizzare una storiografia scientifica per il semplice motivo che l’autore opportunamente mette in campo tutte le sue risorse critiche e tutte le testimonianze possibili, e non nasconde alcun documento, né usa alcuna riserva mentale, e non ha paura di approdare onestamente alle sue conclusioni dopo aver seguito e perseguito le varie piste, e non strumentalizza volgarmente la vicenda a fini partitici, politici o ideologici.
Le fonti locali, oscure, frammentarie e mutilate, non hanno offerto a Capogreco grandi apporti e supporti conoscitivi, anzi ne hanno disorientato talvolta il giudizio e ostacolato la ricerca, mentre la sua narrazione è andata avanti sostanzialmente in modo indipendente e libero, riorganizzando le scarse informazioni e riorientando gli studi e le prospettive critiche, e mantenendo in vita le parti più sgradevoli della vicenda e non ignorando, anzi esaltando intenzionalmente, tutte le zone d’ombra. Dice Carlo Spartaco Capogreco: “Per tutte le ragioni che in questo libro sono state messe in evidenza, la complessa storia di Dante Castellucci-soprattutto la sua morte-non è facilmente riconducibile alla rappresentazione agiografica, fatta di eroica purezza, che ha sorretto per molti decenni la memoria della nostra Resistenza e che la storiografia ufficiale ha lasciato credere sempre vera ed intoccabile. Proprio per questo, evidentemente, storici e politici hanno a lungo preferito evitare di rapportarsi con la vicenda di Facio: essa non rientrava nel politicamente corretto, e perciò si è scelto di lasciarla in un limbo di rimozioni, omissioni, falsificazioni, sottratta all’indagine seria e coscienziosa” (C.S.Capogreco, Il piombo e l’argento, cit.,p.160). Il compito della storia locale, che è quasi sempre fondamentale, è stato in questo caso disatteso perché non ha fornito elementi di certezza e di originalità e pertanto si è imposta direttamente una storia nazionale quale è quella che Capogreco ha elaborato e ricostruito con articolazione critica e visione rigorosa non condizionata dai potenti rapporti di affiliazione e socialità localistica.
Dopo la pubblicazione del libro di Capogreco si sono fatti vivi alcuni testimoni che forse non hanno accettato né l’antica versione dei fatti, né quella fornita coraggiosamente dall’autore, e non hanno voluto restare in quella zona d’ombra che li ha coperti con sommo dolore per tanti anni, loro che erano protagonisti e attori e non semplici spiriti paesani vaganti e contemplanti dall’alto le terribili vicende della guerra e degli eccidi nazifascisti e il massacro di un autentico partigiano ad opera di coloro che avrebbero dovuto proteggerlo.
Così si è presentato finalmente alla ribalta il sacerdote ultranovantenne don Agostino Orsi, già parroco di Adelano, che aveva redatto il certificato di morte di Facio miracolosamente ritrovato, dal quale si evince chiaramente che la sua uccisione è avvenuta la sera del 21 (e non all’alba del 22) luglio 1944 e che la sua soppressione si è verificata a seguito di un terribile agguato dei “patrioti”.
E la circostanza viene confermata da una postilla scritta a margine del certificato di morte e da un testimone residente nello Zerasco, Settimio Rossi di Adelano: “Ricordo benissimo Facio e Laura [la fidanzata Seghettini]. Il giorno che l’hanno ucciso,il 21 luglio 1944, ricordo di averlo visto passare in un gruppo formato da una quindicina di partigiani. Poche ore dopo abbiamo sentito delle raffiche e un colpo di pistola. Quella sera tutti in paese sapevano che era stato ucciso Facio” (Luca Borghini, Un Sacerdote rivela, in “Il Tirreno”, 23 luglio 2011). Dunque,Facio sarebbe stato attirato in un agguato teso da Cabrelli e dai suoi uomini e ucciso a tradimento anziché a seguito di regolare (o irregolare!) processo intentato da un tribunale di guerra partigiano per ragioni che sarebbero semplicemente ridicole, poiché nell’ipotesi dei fucilatori si tratterebbe del recupero di una semplice piastra di mortaio dopo un lancio alleato.
Dante Castellucci è un vero partigiano, un uomo che ha maturato una solida coscienza democratica e antifascista e che combatte per un’idea e per una prospettiva di liberazione. Egli ha solo 24 anni nel luglio del 1944, ma è formato moralmente ed intellettualmente, inoltre sa adoperare le armi per l’uso appreso durante il servizio militare di leva e la spedizione in Russia, e si distingue per ricchezza di sensibilità estetica, per competenza strategica e per cultura generale. Egli parla perfettamente la lingua francese, essendo vissuto in Francia, per l’emigrazione della famiglia, dal 1922 al 1939, è amante della scrittura creativa, della pittura, della musica e dell’arte in genere. Stringe amicizia con la famiglia Cervi attraverso l’amico Otello Sarzi e subito dopo il 25 luglio 1943, ancor prima che sia stipulato il famoso armistizio dell’8 settembre, decide di abbandonare l’esercito e diventare il compagno e collaboratore di Aldo Cervi nel momento in cui sull’Appennino Emiliano si costituisce la prima banda partigiana. La sua militanza ideologica da questo momento si identifica con quella dei comunisti libertari antistalinisti. Con la fucilazione dei fratelli Cervi e poi con la morte del comunista Fermo Ognibene, detto Alberto, Castellucci, amato ed apprezzato dai suoi compagni, prende il comando dell’intera banda “Picelli”,affronta i nazifascisti in una battaglia memorabile e vittoriosa sul Lago Santo sotto il monte Orsaro e,ricoperto di gloria e di fama, si trasferisce in Alta Lunigiana, precisamente nell’area dello Zerasco. Qui ha la sfortuna di imbattersi in un gruppo di pseudo-partigiani comunisti-stalinisti che hanno però dalla loro parte la piena conoscenza dei luoghi e la forza delle relazioni sociali. Sono uomini che hanno come capo e punto di riferimento l’astuto e camaleontico Antonio Cabrelli, fedele al duce ed a Stalin, che non si sa quanto abbia assimilato della dottrina social-comunista e quanto capisca (o gliene importi) di antifascismo, liberazione, Resistenza, e soprattutto quanto sia in grado di praticare i valori della lotta contro i nazifascisti. Ritengo, in sostanza, che costui è idealmente lontano dal campo della Resistenza, ma che con la sua scioltezza sofistica è capace di inventarsi una collocazione politica ed un ruolo partigiano, anche se sospettato di filo-fascismo,di appartenenza all’OVRA e più volte diffidato dal partito comunista. Costui è tanto abile da assurgere presto ad esponente rappresentativo del partigianato nel suo ambiente naturale, in Lunigiana, e da imprimere timore e terrore sotto la bandiera della Resistenza. Sta di fatto che egli ottiene omertà e collaborazione quando uccide Facio, e fa circolare con successo la notizia della “necessaria” soppressione del partigiano calabrese.
La verità è che senza la collaborazione di tanti a lui molto vicini, per affinità linguistica e relazioni sociali più che per rapporti etici e politici, Antonio Cabrelli non avrebbe potuto tendere l’agguato a Castellucci, né compiere l’atto criminoso, sia che questo si consideri il risultato di una vera iniquità messa in atto per invidia,questioni di potere o semplice antipatia, sia che questo si consideri il risultato di un processo “politico” intentato per motivi assurdi, la cui ricostruzione e trascrizione è stata effettuata ex post, verosimilmente alla metà degli anni Cinquanta, sulla base di originali di incerta provenienza, e sulla cui esistenza Capogreco giustamente nutre forti dubbi: “Certo è che gli originali degli stessi documenti-semmai siano esistiti-non verranno mai ritrovati”(C.S.Capogreco, op.cit.,p.105). La cosa strana è che nessuno in primo tempo denuncia i responsabili del fatto, nemmeno coloro che sono presenti all’operazione cabrelliana e e nemmeno il sacerdote Don Agostino Orsi: loro che avrebbero il dovere morale e politico di parlare. Tra essi il capo partigiano sarzanese Franco Franchini, che ricorderà l’evento in un libro di memorie del 2005, ed altri ancora che subito dopo, nelle trattorie e baite di montagna, parlano delle motivazioni che avrebbero portato all’eliminazione di Facio, mentre il giovane ispettore politico Paolino Ranieri di Sarzana, incaricato dal partito comunista di accertare i fatti e valutare il comportamento di Cabrelli e dei suoi amici autoproclamatisi arbitrariamente membri del Tribunale di Guerra ed esecutori di giustizia, riprende immediatamente la via del ritorno con qualche appunto e disappunto e soprattutto con la paura di imbattersi più che nei nazifascisti nei “patrioti” del gruppo cabrelliano.
Solo nel dopoguerra Laura Seghettini insiste perché si faccia giustizia, e da non molto, come si è detto, l’ex parroco di Adelano e Settimio Rossi,nato e vissuto ad Adelano, hanno smentito tutti quelli che hanno parlato di tribunale politico e di processo e hanno chiesto di fare giustizia. Ma giustizia viene fatta con un procedimento che provoca un’ulteriore lacerazione in coloro che sanno, che hanno visto o che hanno sentito,perché quando si parla delle qualità morali, militari e resistenziali di Facio, che viene considerato adesso un eroe ed un martire della Resistenza, ucciso barbaramente dai nazifascisti, non si può accettare la palese falsificazione. Ma è così arriva la medaglia d’argento alla memoria dalla Presidenza della Repubblica, nel 1963, con una motivazione che è imbarazzante per la storia della Resistenza e per la comune intelligenza. Il testo, vergognosamente falso, rappresenta un insulto al ricordo di Facio ed alla storia d’Italia: “Castellucci Dante. Nato a Sant’Agata d’Esaro ed ivi residente. Partigiano dall’1 ottobre 1943 al 22 luglio 1944 Brig. Garibaldi-Emilia. Decorato di medaglia d’argento con la seguente motivazione: <Valoroso organizzatore della lotta partigiana, incurante di ogni pericolo, partecipava da prode a numerose cruente azioni. Scoperto dal nemico,si difendeva strenuamente;sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi,veniva ucciso sul posto. Esempio fulgido del più puro eroismo.Zona di Pontremoli,22 luglio 1944>”.
La falsità ha creato imbarazzo. Molti infatti si sono accorti dell’amara incongruenza, e uno studioso locale, Giulivo Ricci di Aulla,nella sua Storia della Brigata Matteotti-Picelli, La Spezia 1978 (a cura dell’Istituto della Resistenza di La Spezia), a pag.117 poteva parlare di una sentenza di condanna emessa contro Facio dal “collegio giudicante” (“La sentenza,in sostanza,riconosceva Dante Castellucci [Facio] <reo di atti di sabotaggio all’azione patriottica e di avere con questo favoreggiato il nemico> […] Facio avrebbe infine ammesso di avere sbagliato,ma in buona fede; buona fede che il tribunale dichiara di non poter prendere in considerazione, pronunciando la condanna alla pena capitale. La sentenza veniva eseguita il giorno seguente, 22 luglio 1944, all’alba”) e in appendice allo stesso libro, a p. 275, lo studioso poteva inserire un testo mutilato della motivazione della medaglia d’argento attribuita alla memoria di Facio che aveva partecipato “da prode a numerose cruente azioni”, ben sapendo che non era stato il “nemico” ad ucciderlo sul posto, bensì colui che si dichiarava amico e compagno, assieme ad altri amici e compagni di lotta e di fede.
E lo storico spezzino Antonio Bianchi nella sua Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1975 alle pp.317-318 poteva scrivere tranquillamente, senza avvertire il peso dell’angosciosa contraddizione: “Oggi,a distanza di tempo, si può dire che Facio cadde vittima di un grave errore dovuto ad una valutazione dei fatti eseguita in modo errato, in particolare da Antonio Cabrelli, commissario politico che non tenne conto della figura del combattente,del suo passato e delle circostanze che non giustificavano assolutamente tale grave decisione”. Non hanno senso tutte queste espressioni sotto il profilo storiografico, come non si possono comprendere le parole di Nello Quartieri, ex comandante partigiano, il quale aveva trovato una bella formula con cui risolvere il caso: “una decisione giacobina pose fine ad una vita che doveva dare ancora il meglio di se stessa, ed anche oggi quel tragico avvenimento dell’estate del 1944 ci commuove,ci rattrista e rende inquieta la nostra coscienza” (N.Quartieri, Alla festa d’aprile anche l’indimenticato Facio, in “Il Lavoro”,14 aprile 1970). Una “decisione giacobina” è in verità troppo nobilitante per un pugno di uomini che hanno trasformato in “missione” politica un vile attentato. Paolo Pezzino, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa, presentando a Sarzana il libro di Capogreco più volte citato, può liberare la sua competenza storiografica e sbarazzarsi dei luoghi comuni facendo balenare l’idea prevalente di un “piano” per liberarsi di un uomo scomodo alla struttura militare del partito comunista.Ma Cabrelli non è all’altezza di una simile missione,né di quella opposta di agente provocatore dell’OVRA. Ciò che ha invece un fondamento di verità è che la responsabilità dei militanti nel partito comunista e nelle altre formazioni partigiane,presenti ad Adelano nello Zerasco in relazione all’uccisione di Facio la sera del 21 luglio 1943,è di estrema e tragica gravità e nessuno storico la potrà mai rimuovere. E così Pezzino può concludere il suo intervento: “E credo che il grande merito di Carlo Spartaco Capogreco sia appunto rifiutare l’oblio che si voleva mettere su una vicenda enigmatica, problematica,ma della quale oggi,credo,conosciamo tutti gli snodi,e di aver accettato la ricostruzione della verità.
Di una verità difficile, di una verità che naturalmente è frutto di una interpretazione […] ma di una verità ricercata con grande onestà intellettuale,con grande finezza interpretativa, e con grande,lasciatemelo dire, amore per Facio e per la Resistenza”.
Pezzino non aggiunge nuovi elementi di analisi e nuove valutazioni critiche e si muove in un mare di contraddizioni che non riesce a conciliare. Appare invece inquietante che persino Nello Quartieri, testimone dell’esperienza resistenziale e politica di Facio e sinceramente ferito nella propria coscienza cristallina (come del resto Paolino Ranieri e Laura Seghettini) dichiari semplicisticamente “giacobina” la decisione di sopprimere, senza validi motivi e con un tribunale di guerra illegittimo (ammesso pure che questo tribunale sia stato approntato), l’inconsapevole Facio, che forse poteva essere un “indisciplinato”, ma che certamente era un generoso combattente per la giustizia e la libertà. Il politico Quartieri non riesce ad entrare nella dolorosa vicenda con tutto il patrimonio della sua umanità,e con tutta l’apertura della sua mente, come non vi riesce il pur appassionato storico locale Giulivo Ricci perché carico di emozioni e relazioni socio-affettive che ne condizionano l’analisi ed il giudizio, nonostante il dato positivo del suo contributo allo “sdoganamento storiografico” del caso Facio. Dice a tal proposito Capogreco: “Pur avendo conosciuto personalmente Giulivo Ricci, non sono riuscito a ottenere da lui una risposta esauriente sulla questione. La mia idea--ma essa rimane,pur sempre,solo una supposizione--è che lo storico lunigiano abbia preferito non entrare nel merito della <finta riabilitazione> per ragioni di opportunità. Anche perché egli vive e opera tra Aulla e La Spezia,e in quell’area […] permaneva < un blocco d’ordine> interessato e determinato a mantenere il più possibile dense le nebbie sul caso Facio” (C.S.Capogreco,op.cit.p.145). Un “blocco d’ordine” si trasformava subito in una forza politica pronta ad entrare in azione contro ogni “disturbatore” della quiete pubblica e privata. Nulla si può concedere ai dubitanti ed ai curiosi,ed agli stessi studiosi che nutrono troppo amore per la verità giacché le azioni compiute in quel tempo orribile dovevano avere in se stesse la loro legittimazione, e non potevano essere riprovate e giudicate ex post. Il Cabrelli ed i suoi sodali non avrebbero gradito.
Nessuno,insomma, doveva farsi tentare di ricostruire fatti di questa natura secondo criteri giuridici posteriori e con somma libertà mentale,nemmeno la storiografia se lo poteva permettere. Solo il tempo può sanare le omertà e le false posizioni e giustificazioni di storici e memorialisti. Costoro sono costretti a riabilitare il vizio trasformandolo in virtù e in positiva necessità. Del resto,mancano spesso i documenti e ciò che rimane è la memoria. E la memorialistica resistenziale toglie terreno al rigore della storiografia, che la usa impropriamente quando vuol sapere, vedere e capire più da vicino. La verità è tuttavia quella che riguarda gli uomini veri, non quelli immaginati,gli uomini in carne e ossa di cui parlano Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel, e Benedetto Croce nei suoi tanti articoli di metodologia e di teoria disseminati ne La Critica e nelle opere maggiori e minori. Per questo motivo ,dice Santo Peli, “una riflessione sui limiti e le difficoltà interne al progetto ed alle realizzazioni della Resistenza è ormai inevitabile”(S. Peli,La Resistenza in Italia.Storia e critica,Einaudi 2004,p.267) .
Non dico perciò nulla di insensato se aggiungo che è finito il tempo della mitologia e della produzione storica autoreferenziale, che tra l’altro ha messo in grave pericolo la storiografia resistenziale e ne ha messo in crisi un l’uso credibile.