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Storia
I Prefetti della Liberazione in Piemonte
Donato D’Urso
Due giorni fa abbiamo dato notizia nei nostri Segnali dell’ultima fatica di Donato D’Urso: il suo libro sugli aspetti della guerra civile 1943/45. Ora, lo stesso D’Urso ci manda un suo saggio breve, pubblicato nel fascicolo 11/2014 del Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino, che  ci sembra di grande interesse per mettere in luce non soltanto il passaggio di poteri avvenuto al momento della Liberazione in Piemonte, ma anche ciò che immediatamente ne seguì nella stentata fase di pacificazione e di avvio della ricostruzione. Per questo, abbiamo deciso di pubblicarlo integralmente, nonostante la lunghezza e la complessità del testo. Merita di essere apprezzato per intero (ndr)
 
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«Nel Nord, i prefetti non vennero nominati dal governo centrale, bensì proposti da uno dei partiti della Resistenza, accettati dal CLN provinciale e nominati dal governatore militare alleato della provincia. I prefetti del Nord, quindi, non erano i rappresentanti del governo di Roma, ma del Comitato di Liberazione Nazionale che li aveva proposti. Il governo di Roma, di conseguenza, non aveva un controllo diretto sulle provincie del Nord, se non per il tramite dei governatori provinciali e regionali del governo militare alleato» (1)
 
Nelle sei province piemontesi, finita l’esperienza della Repubblica sociale italiana (2), dopo il 25 aprile 1945 l’assegnazione delle cariche pubbliche avvenne sulla base di accordi tra i partiti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. A Torino come prefetto fu scelto un socialista (Pierluigi Passoni), a Cuneo un liberale (Guido Verzone), a Novara un socialista (Piero Fornara), a Vercelli un liberale (Giovanni Cantono Ceva), ad Asti un democristiano (Enzo Giacchero), ad Alessandria un azionista (Livio Pivano, sostituito a ottobre da Carlo Galante Garrone) (3).
Alcune brevi note biografiche sui nominati.
 
Pierluigi PASSONI
Nato a Valenza (Alessandria) nel 1894, ragioniere, aderì al partito socialista nel 1917. Cognato di Giuseppe Romita, a causa delle posizioni apertamente ostili al regime fascista nel 1927 fu arrestato «per soccorso rosso e diffusione di stampa clandestina» ma prosciolto un anno dopo dal Tribunale speciale (4).
Il fratello Mario, avvocato, fu arrestato nel marzo 1929 e confinato a Ponza. Sino alla caduta di Mussolini i Passoni furono a Torino un sicuro punto di riferimento per ogni iniziativa antifascista. Dopo l’8 settembre 1943 entrarono nelle file della Resistenza e Pierluigi, quale membro del comitato di liberazione regionale, fu attivissimo nel servizio informazioni, nello scambio di prigionieri e nel reperimento di risorse finanziarie. Compì anche un’inchiesta per accertare che fine avessero fatto molti milioni appartenuti all’intendenza della 4ª armata dissoltasi dopo l’armistizio.
Prefetto di Torino per dieci mesi, come gli altri prefetti della Liberazione cessò dalle funzioni il 1° marzo 1946. In seguito Passoni fu presidente dell’azienda telefonica Stipel e consigliere comunale. Eletto senatore nel 1963 aderì al Psiup. Ricoprì anche la carica di presidente dell’Anpi provinciale, morendo a Torino nel 1969 (5).
 
Guido VERZONE
Nacque a Brusnengo, oggi in provincia di Biella, nel 1891. Il padre era medico condotto. Volontario nella Grande Guerra, meritò croce di guerra e patì invalidità a un occhio. Avviatosi alla professione forense, aprì studio legale a Torino. Secondo documenti d’archivio oggi conosciuti, Verzone nel 1940 chiese ed ottenne l’iscrizione al partito nazionale fascista (gruppo rionale Bianchi), come ex-combattente (6). Dopo l’8 settembre 1943 incontrò il generale Giuseppe Perotti, poi fucilato al Martinetto, per discutere il coordinamento della resistenza ai tedeschi.
Verzone, individuato e ricercato, si spostò nel cuneese dove conobbe Duccio Galimberti. Le cronache riportano che partecipò ad azioni di sabotaggio, compreso quello alla galleria del colle di Tenda. Fu arrestato tre volte ma scampò a fucilazione e deportazione, l’ultima volta grazie a uno scambio di prigionieri.
Collegatosi ai partigiani autonomi, riprese alla lotta clandestina sebbene le ripetute detenzioni lo avessero fisicamente debilitato. Dopo il 25 aprile ‘45 fu prefetto di Cuneo rappresentando il partito liberale e si trovò per la sua funzione coinvolto nella vicenda del « tesoro« della 4ª armata (7).
Secondo l’opinione dell’azionista Giorgio Agosti, Verzone era «sì attivo ed energico, ma liberale di estrema destra e piuttosto ostile ai partigiani» (8). Nel 1947 il consiglio comunale del capoluogo gli conferì la cittadinanza onoraria « per le alte benemerenze acquisite verso la Patria e la Città quale coordinatore di tutte le formazioni del cuneese ». Suo fratello Giuseppe era vice-direttore della sezione costruzioni e impianti della Fiat. Guido Verzone morì a Torino nel 1956 (9).
 
Piero FORNARA
Nato a Novara nel 1897, apparteneva a famiglia di tradizioni democratico-radicali. Si laureò in medicina a pieni voti specializzandosi in pediatria a Parigi e Vienna. Nel 1929 ottenne la docenza all’Università di Pisa ma non poté accedervi perché rifiutò l’iscrizione al Pnf.
Durante il ventennio mantenne un atteggiamento di distacco dal regime, dopo l’8 settembre 1943 aderì al partito socialista. A Novara la sua abitazione, l’ambulatorio, l’ospedale diventarono centri di attività clandestina, in collegamento con i comitati di liberazione di Milano e Torino e i consolati americano e inglese di Lugano. Come misura prudenziale, all’uscita dalle riunioni egli forniva a ogni partecipante una ricetta medica per i figli, così da giustificare l’incontro.
Grazie alla sua autorevolezza riuscì a raccogliere dagli industriali locali consistenti contributi per il movimento partigiano. Il 25 ottobre 1944 Fornara fu arrestato insieme con alcuni collaboratori, maltrattato e minacciato di morte, poi rilasciato. Nei giorni della Liberazione trattò la resa delle truppe tedesche e fasciste. Designato prefetto di Novara (mentre il comunista Cino Moscatelli fu nominato sindaco), ebbe talvolta rapporti difficili con i comandi alleati poiché rivendicava totale autonomia. In proposito rimase famoso il discorso tenuto alla presenza di Charles Poletti, famoso governatore militare americano che apparteneva a famiglia emigrata dal novarese.
Il 2 giugno 1946 Fornara fu eletto all’Assemblea costituente ma nel 1948 rinunziò all’impegno politico diretto, preferendo tornare a tempo pieno alla professione. Fu sempre fautore dell’abolizione dell’istituto prefettizio e morì nel 1975 dopo essere stato tra i promotori dell’Istituto storico della Resistenza di Novara che ebbe poi sede in quella che era stata la sua casa. A lui oltre che l’Isrn, sono intitolate anche una via e una scuola del capoluogo e nel palazzo della prefettura di Novara c’è una lapide in suo ricordo (10).
 
Giovanni CANTONO CEVA
Era nato nel 1897 in provincia di Caserta, ma la famiglia era originaria di Andorno, da dove s’era trasferita successivamente a Biella, Ronco e Torino. Sin dal XVI secolo si ha notizia di appartenenti al ceppo dei Cantono rivestenti importanti cariche ecclesiastiche e civili. Nel 1823 il magistrato e scrittore Carlo Pietro Cantono sposò Enrica di Ceva, alla quale fu riconosciuta la successione nei titoli dei signori del marchesato di Ceva (11).
Giovanni portava lo stesso nome del nonno che sposò in seconde nozze Polissena Asinari di San Marzano. Il padre si chiamava Luigi, la madre Giovanna Besati. Prima del definitivo affermarsi del regime fascista, Giovanni Cantono Ceva si schierò con i liberali giolittiani nelle difficili elezioni politiche dell’aprile 1924 (12). Con altri ex-combattenti come Marcello Soleri, Eugenio Artom, Bruno Villabruna firmò un manifesto col quale prendevano le distanze dal governo Mussolini: non a caso l’associazione combattenti fu una delle ultime organizzazioni sociali che i fascisti dovettero
conquistare. Giovanni Cantono Ceva è morto nel 1975.
Sono interessanti le considerazioni di Elmo Bracali, prefetto di carriera che nel marzo 1946 sostituì Cantono Ceva a Vercelli: «Il trapasso dei poteri tra il dott. Giovanni Cantono Ceva e me è avvenuto nella massima cordialità e con lo spirito più amichevole, e quindi con reciproca soddisfazione, anche se in qualche ambiente della popolazione si desiderava che il prefetto politico restasse almeno sino ad esito delle elezioni amministrative [...] Presso questa Prefettura prestano tuttora servizio, oltre ai due vice prefetti di carriera (il vicario dott. Ferreri e l’ispettore dott. Pascale), anche due vice prefetti politici, nominati a suo tempo dal Comitato provinciale di Liberazione nazionale e confermati in carica dall’Amg, e precisamente il dott. Carlo Cerruti con le funzioni vicarie e il dott. Renato Bertone con le funzioni ispettive. Il dott. Cerruti è un impiegato di concetto della Assicurazione Irrigazione Ovest Sesia ed appartiene al Partito comunista; il dott. Bertone è un professionista nel campo commerciale ed appartiene al partito della Democrazia cristiana. Entrambi, anche a quanto mi riferisce il prefetto uscente marchese dott. Giovanni Cantono Ceva hanno dato la più efficace collaborazione nella amministrazione della provincia e nella risoluzione dei più importanti problemi, dimostrando ottime qualità personali, tatto, senso di responsabilità ed obbiettività. Riterrei che, con l’assunzione della direzione di questa provincia da parte di un prefetto di carriera, possa tornarsi alla normalità anche a questo riguardo e che quindi tanto il dott. Cerruti quanto il dott. Bertone possano essere restituiti alle loro private attività professionali. È peraltro opportuno, per non determinare reazioni di sorta, che il trapasso da funzionari politici a funzionari di carriera nei più alti gradi dell’amministrazione della provincia avvenga con il necessario tatto» (13).
 
Enzo GIACCHERO
Era nato a Torino nel 1912 in una famiglia di origini astigiane e di profonda fede cattolica. Frequentò il prestigioso liceo d’Azeglio avendo come insegnante Augusto Monti e si laureò in ingegneria civile al Politecnico iniziando la carriera universitaria col prof. Gustavo Colonnetti. Durante la seconda guerra mondiale fu ufficiale nella Folgore e rimase gravemente ferito in Africa, subendo l’amputazione di una gamba. Decorato sul campo con medaglia d’argento, trovò in ospedale un prigioniero inglese pure mutilato. « Quel giorno in cui ebbi una grande disgrazia, ringraziai il cielo che mi aveva dato questa grande luce di verità di comprendere che quell’uomo, che poche ore prima credevo un nemico, ora lo ritrovavo fratello per sempre ».
Dopo l’8 settembre 1943 partecipò alla Resistenza come vicecomandante della VI divisione partigiana autonoma. Alla fine della guerra, il Cln lo designò prefetto politico di Asti. Il 2 giugno 1946 fu eletto all’Assemblea costituente per la democrazia cristiana, venendo poi confermato nella prima legislatura: fu l’unico democristiano a votare contro l’articolo della costituzione che esclude la possibilità di rivedere la forma repubblicana dello Stato. I
n parlamento e fuori si distinse sempre per un acceso anticomunismo, sostenne convintamente l’adesione al piano Marshall e al patto atlantico, fece parte del consiglio esecutivo dell’Unione parlamentare europea e partecipò da protagonista a tutte le iniziative avviate per l’integrazione del vecchio continente (movimento europeo, consiglio d’Europa, Unione europea dei federalisti), dando un importante contributo personale.
Nel 1951 l’Italia sottoscrisse il trattato istitutivo della comunità europea del carbone e dell’acciaio e rientrò così a pieno titolo nel gioco internazionale. Era la prima volta che 6 stati europei cedevano poteri a istituzioni sovranazionali. Giacchero rappresentò l’Italia nella Ceca. Alla fine degli anni Cinquanta abbandonò l’impegno nella democrazia cristiana, della quale non condivideva la scelta di centro-sinistra, fu segretario generale del comitato per il centenario dell’Unità (Italia 61) presieduto a Torino da Giuseppe Pella, successivamente direttore generale della società per l’autostrada Torino-Piacenza e presidente dell’unione industriale di Asti. Nel 1975 s’impegnò nuovamente in politica aderendo alla costituente di destra che fiancheggiò il movimento sociale italiano di Almirante. Allorché nacque democrazia nazionale, Giacchero fu eletto presidente del nuovo partito di destra al quale, però, mancò il consenso elettorale e Giacchero abbandonò definitivamente la politica. È morto nel marzo 2000 (14).
 
Livio PIVANO
Nato a Valenza nel 1894, fervente repubblicano e interventista, sul finire del 1914 organizzò partenze per la Francia di volontari garibaldini e si legò d’amicizia con Cesare Battisti. Durante la Grande Guerra fu più volte ferito, meritò due medaglie al valore, quattro croci di guerra e la fama di capitano più giovane dell’esercito italiano. Fondò il giornale «L’Azione nazionale » col proposito di difendere il fronte interno dal disfattismo, poi il foglio dei combattenti «L’Ora nostra ». Nell’ottobre 1922 ordinò agli iscritti all’associazione combattenti di non opporsi alle squadre fasciste e nel 1924 si candidò nel « listone« voluto da Mussolini.
Dopo il delitto Matteotti prese però le distanze dal governo e partecipò all’opposizione in aula insieme con altri deputati ex-combattenti. Votò contro le leggi eccezionali e la pena di morte. Gli squadristi cantavano: « Ma che Pivano, ma che Mazzini, viva Dumini in libertà » (15).
Affermatosi il regime, si ritirò dalla politica dedicandosi ad attività industriali. Nella sua abitazione
di Alessandria usavano incontrarsi gli oppositori locali, compreso il comunista Walter Audisio. Arrestato una prima volta subito dopo il 25 luglio 1943, quando sopravvenne l’armistizio Pivano, insieme con altri antifascisti chiese ai comandi militari e, in particolare al generale Adami Rossi, di opporsi ai tedeschi anche distribuendo armi ai civili. Il tentativo fallì, nonostante l’appoggio del suocero di Pivano, generale Bernardo Cetroni che finì deportato in Germania. Pivano fu nuovamente arrestato nell’autunno 1943 ma prosciolto dal tribunale provinciale straordinario fascista (16).
Nei giorni della Liberazione fu tra gli attori principali della capitolazione delle truppe tedesche nell’alessandrino. Da prefetto ebbe qualche dissidio con le autorità alleate tanto da essere sospeso dalle funzioni. Nominato membro della Consulta nazionale, fu sostituito in ottobre da Carlo Galante
Garrone. Cultore di storia mazziniana, autore di numerose pubblicazioni, presidente per molti anni del comitato di Alessandria dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Pivano è morto nel 1976 (17).
 
Carlo GALANTE GARRONE
Nacque a Vercelli nel 1910 in una famiglia legata alla tradizione risorgimentale e all’interventismo democratico, figlio del latinista Luigi Galante e di Margherita Garrone (18). Il padre aveva battuto addirittura Giovanni Pascoli in un certamen ed era stato insegnante di Piero Gobetti.
Carlo, fratello minore di Alessandro e Virginia, alla fine degli anni Trenta s’avvicinò a Giustizia e Libertà. Con il germano e Giorgio Agosti (come lui magistrati) entrò nel partito d’azione nel 1942 e prese parte alla resistenza, organizzando presso il tribunale di Torino un deposito di stampa clandestina. Sfuggito all’arresto nel febbraio 1945, partecipò alla liberazione di Cuneo. Il 19 ottobre 1945 assunse le funzioni di prefetto di Alessandria. Le autorità alleate erano inizialmente orientate a preferire un funzionario di carriera ma accettarono Galante Garrone quando fu spiegato loro che, in Italia, i giudici sono in definitiva anch’essi funzionari pubblici.
Tornato nel marzo 1946 al lavoro di magistrato, Galante Garrone continuò l’impegno politico collaborando a giornali e adoperandosi per la difesa dei valori democratici. Nel 1953 lasciò la magistratura per l’avvocatura e negli anni successivi prese parte a importanti processi politici come quello avviato contro i partigiani dai parenti di alcune vittime delle Fosse Ardeatine. In parlamento fu prima senatore poi deputato, indipendente eletto nelle liste del Pci-Psiup, s’impegnò nella battaglia per l’introduzione del divorzio, per la riforma del codice Rocco, per la riforma dell’ordinamento penitenziario, contro la legge Reale e nella denuncia dello scandalo Lockheed. Fu anche consigliere comunale di Torino. È morto nel 1997 (19).
 
I problemi che i sette prefetti si trovarono ad affrontare dalla fine di aprile del 1945 alla fine di febbraio del 1946 erano gravi, assillanti e assai simili in tutta la regione.
Innanzitutto, l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, a cominciare da quelli alimentari, era reso complicato da una serie di motivi. Un po’ ovunque i contadini eludevano l’obbligo di conferire i prodotti agricoli all’ammasso, come già avvenuto durante la guerra in coerenza con le diffuse tradizioni antistataliste delle campagne. La situazione era resa più grave dalla penuria di mezzi per trasportare le merci in ambito provinciale o importarle dalle zone vicine e accadeva che rimanessero a lungo in giacenza derrate che non si riusciva a movimentare. Oltretutto, le autorità militari alleate attuavano un controllo severo in base a direttive di carattere generale, «disposizioni che essendo state dettate per tutta l’Italia in modo uniforme, spesso erano poco congeniali alla nostra particolare situazione» (20).
Anche il mercato del bestiame tardava a riprendersi per la difficoltà di rifornimento dei foraggi, contemporaneamente dilagavano le macellazioni clandestine con gravi rischi per la salute. In mancanza di altri combustibili, per ogni esigenza di vita i privati facevano ricorso alla legna e per recuperarne non rinunziavano a fare a pezzi gli alberi di boschi, parchi e viali. Nei luoghi dove i bombardamenti avevano gravemente danneggiato le linee ferroviarie, la gente divelleva e portava a casa le traversine di legno. Nella stagione più fredda la difficoltà di ripararsi dal freddo divenne vera emergenza sociale e provocò decessi tra le persone più deboli.
Le strutture assistenziali post-belliche dovevano occuparsi di decine di migliaia di sfollati rimasti senza casa, dei rimpatriati dalle colonie d’Africa, delle popolazioni costrette a lasciare terre di confine, dei reduci dall’internamento in Germania, dei tanti prigionieri di guerra che tornavano dai cinque continenti spesso in condizioni fisiche provatissime, specie quelli che avevano vissuto l’esperienza dei campi russi e francesi. Era una emergenza permanente, difficilissima da gestire con le scarse risorse a disposizione.
Oltretutto, la guerra tra poveri comportò che, per fare posto ai reduci, si dovettero licenziare tutti quelli, specie donne, che durante la guerra avevano trovato occupazione provvisoria nei servizi e uffici pubblici.
Continuava a prosperare la borsa nera e la condizione peggiore divenne quella dei lavoratori a reddito fisso, come gli impiegati un tempo socialmente privilegiati. L’inflazione galoppante fece perdere potere d’acquisto alla moneta e vanificò i risparmi e il valore dei titoli di Stato da molti sottoscritti negli anni della guerra per sincero patriottismo. Si tornò a forme antiche di baratto e le case si vuotarono tristemente di ogni oggetto che avesse valore venale in cambio di cibo o medicine. L’italianissima arte di arrangiarsi conobbe vette che si pensava inimmaginabili, soprattutto dopo vent’anni di retorica di regime (21).
Nelle città era necessario sgomberare enormi cumuli di macerie, ripristinare trasporti, acquedotti, fognature, condutture elettriche e del gas. L’amministrazione alleata dava precedenza alla riparazione di ponti stradali e ferroviari che con tanto accanimento gli aerei avevano distrutto sino a poche settimane prima. Quando fu possibile riattivare il collegamento in treno tra Torino e Roma, i posti a disposizione dei privati erano talmente pochi che dovettero essere ripartiti tra le varie stazioni di fermata, cosicché succedeva che potesse accedere ai vagoni solo una persona per volta, munita di autorizzazione della prefettura che valutava i bisogni individuali.
C’erano da recuperare enormi quantità di materiale bellico abbandonato, da disinnescare migliaia di mine antiuomo e anticarro interrate dai belligeranti, per non dire delle bombe d’aereo che esplodevano qui e là durante lo sgombero delle macerie, provocando ulteriori vittime e distruzioni.
I comandi alleati per le loro esigenze requisirono manu militari tutti gli edifici pubblici e privati di cui necessitavano (tra i non molti rimasti integri). A ciò si aggiungevano le occupazioni abusive da parte di chi era senza casa, contribuendo a creare una situazione sociale esplosiva e, nel migliore dei casi, penose e affollate coabitazioni. Era gravissima la carenza di aule e ciò ostacolava la ripresa dell’attività scolastica. In autunno, laddove si riuscì a riprendere le lezioni, mancò il combustibile per il riscaldamento e ciascuno s’ingegnò a portare da casa quello che poteva per alimentare le stufe. Privati, industrie, negozianti, ospedali, officine tutti chiedevano disperatamente assegnazione di vetro per porte e finestre, poiché i bombardamenti ne avevano fatto strage. Chi aveva la buona sorte di avere un mezzo a motore o solo una bicicletta spesso rimaneva a piedi per mancanza di gomme di scorta. Qualche volta gli alleati sopperivano a questa o a quell’esigenza materiale attingendo ai loro magazzini ma tutto era distribuito col contagocce.
I rapporti con le forze armate di occupazione erano generalmente buoni e gran parte della popolazione s’adattò a commerciare con esse qualsiasi cosa, mentre inevitabile fu l’aumento della prostituzione e la moltiplicazione dei contagi venerei.
Sovente soldati ubriachi o esaltati si rendevano responsabili di gesti di violenza gratuita e prevaricatrice e persino di omicidi per futili motivi, né mancavano le risse provocate dai pesanti approcci sessuali dei militari stranieri nei confronti delle donne italiane, considerate come preda bellica. Accadde persino che appartenenti al corpo di spedizione brasiliano, in occasione di festeggiamenti, usassero per l’euforia ordigni bellici a mo’ di fuochi d’artificio, provocando incendi e distruzioni ulteriori. Innumerevoli gli incidenti anche mortali causati da autisti spericolati o avvinazzati: gli automezzi militari scorrazzavano per le strade a folle velocità divenendo armi letali per pedoni e ciclisti e ben raramente i responsabili erano perseguiti.
Si generò tra gli italiani un contrasto di sentimenti tra la parte della popolazione soprattutto giovanile che, finita l’angoscia dell’oscuramento, dei bombardamenti e delle sparatorie, aveva voglia di dimenticare e si dedicava a feste e balli, al ritmo di musiche arrivate d’oltreoceano e l’altra
parte che criticava l’asserita indecenza o quantomeno inopportunità di quei sollazzi, tenuto conto che tante famiglie vivevano l’angoscia di congiunti dispersi, prigionieri o deportati, soffrivano per mancanza di un tetto, faticavano a sfamarsi. Per chi aveva la responsabilità politica e amministrativa
era difficile conciliare tante esigenze contraddittorie e soddisfare tanti umani bisogni, soprattutto quelli non effimeri.
Come se tutto questo non bastasse, il dopoguerra conobbe un’ondata impressionante di criminalità. La disponibilità diffusa di armi, l’abitudine alla violenza prodotta dalla guerra, l’esaltazione della disobbedienza e della rivolta contro l’autorità (che durante la lotta di resistenza era stata una necessità politica e militare), la decadenza dei valori morali tradizionali, la carenza e debolezza dei tutori della legge favorì il dilagare di bande armate che depredavano e uccidevano con altissime probabilità di rimanere impunite. Delinquenti di professione, evasi dalle carceri nel caos di quei giorni, militari sbandati, ex-prigionieri liberati, pseudo-partigiani della ventiquattresima ora, tutti concorrevano a rendere città e campagne insicure. Non è un caso che le ultime condanne a morte siano state eseguite in Italia per un delitto comune, la strage di Villarbasse avvenuta il 20 novembre 1945 (22).
Ad Asti il prefetto Giacchero chiese alla Banca d’Italia di erogare una somma in denaro per fare fronte ai bisogni più urgenti delle forze di polizia, spesso senza divise, mezzi ed effetti letterecci. La risposta fu assolutamente negativa: «La repressione della delinquenza organizzata e la salvaguardia dei beni degli enti e dei privati cittadini rientrano nei compiti fondamentali dello Stato, il quale deve provvedervi con i propri organi idonei, assumendosi il relativo onere » (23).
Ultima questione, non in ordine di importanza, fu la gestione della violenza insurrezionale. La «resa dei conti» nei confronti di collaborazionisti o presunti tali conobbe la fase più drammatica nelle settimane immediatamente successive al 25 aprile 1945, ma per molti mesi si registrarono episodi di sangue nei quali non è facile distinguere la «violenza inerziale», le vendette private, i delitti compiuti per occultare altri reati. In tutta la regione si rinvenivano cadaveri, spesso senza documenti e resi volutamente irriconoscibili. Gli archivi conservano gli appelli angosciati rivolti alle autorità da chi cercava notizie di un familiare scomparso, fosse solo per dargli cristiana sepoltura (24). Il ricercatore Mirco Dondi ha indicato per le province piemontesi le seguenti cifre, impossibile dire quanto complete, delle vittime per motivi politici registrate nel periodo dalla fine della guerra all’ottobre 1946 (25):
Torino 1138 persone soppresse
Cuneo 426 persone soppresse
Novara 153 persone soppresse e 7 scomparse
Vercelli 135 persone soppresse e 110 scomparse
Asti 196 persone soppresse e 20 scomparse
Alessandria 168 persone soppresse e 10 scomparse.
Lo spazio consente di riportare solo uno stralcio dell’ampia relazione che Giorgio Agosti, questore-politico di Torino, compilò il 31 maggio 1945, riferendosi al capoluogo piemontese:
«Nel corso dell’insurrezione e nei giorni immediatamente successivi numerosi sono stati gli atti di giustizia sommaria compiuti da elementi partigiani su persone che risultavano gravemente compromesse con il regime fascista repubblicano, o che si eran rese responsabili di persecuzioni, o che continuavano la resistenza sporadica, sparando sulla popolazione dalle finestre («cecchini »). Varie centinaia di persone sono state in tal modo giudicate dai Tribunali di Divisione o di Brigata del Corpo Volontari della Libertà o dai Tribunali del Popolo (Tribunali militari dipendenti dai settori del Corpo Volontari Cittadini), e passati per le armi. Della maggior parte dei giustiziati non è stato possibile stabilire l’identità, trattandosi di individui che si erano sbarazzati dei documenti personali o che se ne erano procurati dei falsi. Molti cadaveri sono stati seppelliti affrettatamente, anche a causa del forte caldo che regnava in città in quei giorni; un certo numero è stato buttato nel Po (sebbene a questo riguardo la fantasia popolare abbia molto esagerato; infatti sondaggi eseguiti ripetutamente nel fiume, anche fuori del concentrico cittadino, han dato risultati per lo più negativi). Riesce attualmente impossibile stabilire con sufficiente approssimazione il numero dei giustiziati; si può tuttavia calcolare che esso non raggiunga il migliaio [...] Attualmente i detenuti per motivi politici ammontano a 980. Circa 900 sono stati trasferiti, nella seconda metà di maggio, in campi di concentramento, perché considerati prigionieri di guerra [...] Per la provincia non si posseggono dati neppure approssimativi sulle esecuzioni sommarie di fascisti e collaborazionisti » (26).
A Vercelli, nell’immediatezza della Liberazione, fu sommariamente giudicato e passato per le armi il capo della provincia Michele Morsero. A Novara, dopo un processo dinanzi alla Corte d’assise straordinaria, nel settembre 1945 fu fucilato l’ex-capo della provincia Enrico Vezzalini. In quella drammatica stagione Oscar Luigi Scalfaro, giovane magistrato, rivestiva a Novara funzioni di pubblico ministero e il prefetto Fornara per suo conto volle esprimere un giudizio senza appello sull’ipotesi di grazia: «È parere di tutta questa popolazione e mio personale che il sanguinario Vezzalini sia fucilato».
L’esperienza prefettizia ad Alessandria è stata raccontata da Carlo Galante Garrone con accenti di grande sincerità, in un lungo articolo pubblicato pochi mesi dopo aver lasciato l’incarico. Riporto uno dei passaggi umanamente più belli:
«Avevo chiesto a uno spazzino informazioni sopra una via che non sapevo trovare. Mi accompagnò per un tratto di strada. Cominciai a parlare del più e del meno, del sindaco, dei bisogni della popolazione. E poi chiesi: prefetto chi è? Mah, rispose lo spazzino, è uno giovane. E cosa ne dicono? Ne parlano bene, rispose: «Pare che faccia le parti del popolo». Caro spazzino! Fu quello l’encomio più bello e consolante, il premio più gradito di mesi e mesi di fatiche » (27).
Lo stesso Galante Garrone ringraziando l’azienda dolciaria Pernigotti per un omaggio in natura, vera prelibatezza in quei tempi, dimostrò quali sentimenti animassero quel giovane prefetto di 35 anni: «Ho trattenuto per la mia bambina 28 una tavoletta di torrone e un barattolo di cacao; tutto il resto, invece, ho devoluto ad un mio antico compagno di scuola (omissis) bidello della scuola media di Casale Monferrato, che versa in dolorose condizioni economiche ed ha quattro figli in tenera età» (29).
Una curiosa testimonianza è quella lasciata nei diari da Falcone Lucifero, ministro della Real Casa con Umberto di Savoia. Si legge sotto la data del 27 marzo 1946:
«Vado dal prefetto Ciotola (30), distinto funzionario dal naso adunco: dice che la provincia è stata rovinata dagli anglo-americani e dal prefetto Passoni, ragioniere, socialista, affarista, cognato dell’attuale ministro Romita. E quando, stasera tardi, sto per uscire dal ristorante, trovo a conversare con la padrona proprio Passoni, che si intrattiene affabilmente con me, invia i saluti a Romita e sostiene che Ciotola l’ha fatto nominare lui! Aggiunge che ha ripreso la professione e minimizza la sua nomina a commissario della società telegrafica Stipel! Prende per cretini! Ciò gli comporta non so quante centinaia di migliaia di lire l’anno! ». «Le assorbirà molto tempo! ». «No, due o tre ore al giorno!» (31).
La sostituzione generalizzata dei prefetti della Liberazione avvenne durante il primo governo De Gasperi, con ministro dell’Interno il socialista Giuseppe Romita. Un’insistente richiesta era venuta dai liberali alla fine del 1945 e la decisione divenne merce di scambio con le sinistre che, mirando innanzitutto alla Costituente e alla Repubblica, accettarono senza eccessiva opposizione la sostituzione dei prefetti scelti dal Cln, poiché comunisti e socialisti erano convinti di ottenere, di lì a poco, la maggioranza alle elezioni del 2 giugno 1946. Per il ministro Romita, così egli scrisse in un libro di ricordi, la scelta di sostituire i prefetti della Liberazione con funzionari di carriera voleva dire «continuità dello Stato, normalità» (32).
L’operazione, secondo altri, «va valutata anche in rapporto al poco di straordinario che i prefetti rimossi erano riusciti a fare» (33). Ha scritto Robert Fried: «I prefetti politici, si sosteneva, non potevano agire contro le forze responsabili della loro nomina. Nè si poteva aver fiducia che essi agissero come guardiani imparziali della vita e della proprietà dopo l’imminente ritiro del Governo militare alleato» (34).
Giuseppe Brusasca, esponente democristiano, pur riconoscendo che i prefetti erano mandatari dei comitati di liberazione solo in senso morale e politico e non giuridico, affermò che in caso di contrasto i prefetti avevano il dovere di dimettersi. De Gasperi, per ammorbidire i contrasti, propose che fosse concesso, a chi lo chiedeva, di essere immesso in ruolo ma pochi prefetti della Liberazione accettarono e la stragrande maggioranza tornò alle primitive occupazioni. Carlo Galante Garrone nel manifesto di commiato alla popolazione della provincia parlò, senza reticenze, di «governo pur sempre accentratore» e di «invadenza e incomprensione del centro», sottolineando amaramente che «l’epurazione, l’avocazione dei profitti di regime sono state vane parole» (35). Sulla rivista « Il Ponte » di Piero Calamandrei scrisse con evidente sarcasmo:
«Sì: anche il prefetto politico muore. Muoiono tutti insieme, i prefetti politici: allo stesso giorno, alla stessa ora. Non di morte improvvisa: ma dopo una lenta agonia, con tracollo finale. Una malattia collettiva: una vera epidemia. I primi sintomi a novembre 1945: l’attacco a fondo dei liberali, nel loro sapiente decalogo,  ai prefetti politici, a questi usurpatori incompetenti e faziosi, che tanto fanno rimpiangere i competenti e imparziali funzionari dell’era fascista. Poi, la crisi di governo. Risolta. C’è ancora qualche speranza di salvezza? De Gasperi scuote tristemente il capo. Il grande clinico non si pronuncia: ma lascia intendere che alla soluzione della crisi, con i liberali ripescati in extremis, si accompagnerà l’onorata sepoltura degli « usurpatori« [...] I parenti, i malati stessi non si fanno illusioni; consulti continui al Viminale: medico curante è divenuto Romita, socialista. Partito di sinistra: forse c’è ancora una speranza di salvezza? I prefetti della liberazione, i prefetti della resistenza, i prefetti del C.L.N. Che debba essere proprio un socialista a seppellirli? Alternative, alti e bassi; come in tutte le malattie. Ma ci sono malanni che, a certe stagioni, rincrudiscono e si fanno più gravi: e i medici paventano, allora, il volgere inesorabile delle stagioni, e tentennano il capo. La stagione brutta, per i prefetti politici, è ormai alle porte, altrettanto inesorabile, e ha un nome: elezioni. L’imparzialità, dea suprema, è in pericolo. Come è possibile lasciare svolgere le elezioni con prefetti di parte? E il destino è segnato. Ma Romita, il buon medico socialista, vuole ancor chiamare e ricevere, ad uno ad uno, i morituri: e fa coraggio, e dice parole buone, e promette la salute, come i medici pietosi che poi parlano, a parte, con i parenti e fanno cadere le ultime speranze » (36).
Così un giornale astigiano salutò Enzo Giacchero, il più giovane dei prefetti della Liberazione (33 anni): «Lascia il suo posto che Asti liberata aveva a lui, combattente mutilato e partigiano, affidato. Dopo le svariate e – nere – successioni di prefetti a Palazzo Ottolenghi l’averne avuto uno che fosse dei nostri e soprattutto « nostro » è stato per tutti gli astigiani di grande consolazione. Non possiamo a sentore di tutta la popolazione che congratularci per il suo governo, per la sua bontà e soprattutto per l’elevato e signorile suo atteggiamento di imparzialità [...] Yanez (37) lo ebbimo, per volere di popolo, Prefetto saggio ed onesto. Ce lo tenemmo caro a cominciare dal 25 aprile 1945 questo Prefetto (il primo che capisse il nostro dialetto e i nostri bisogni) e credevamo non dovesse più andar via. Disposizioni superiori il 28.2.1946 ce l’hanno tolto, non dal cuore e non dal ricordo. Chi fa del bene non si può dimenticare» (38).
Concludo queste brevi note ricordando che, negli anni Cinquanta, i prefetti della Liberazione chiesero l’istituzione di un albo d’onore, un formale riconoscimento – senza benefici economici – dell’opera svolta in tempi tanto difficili ma esaltanti. Il ministero dell’Interno il 2 dicembre 1954 scrisse ai prefetti in carica nelle varie sedi per conoscere, raccomandando «assoluta discrezione», se i richiedenti meritassero l’apprezzamento e la riconoscenza dell’Amministrazione.
« Si gradirà, inoltre, di conoscere quale sia stato il comportamento politico dei cennati prefetti ed il ricordo lasciato nella provincia dove hanno disimpegnato l’alto incarico, precisando se, anche in relazione all’attività attualmente svolta ed al prestigio di cui godono in pubblico, un eventuale riconoscimento dell’Amministrazione avrebbe una eco favorevole».
Riporto di seguito le risposte riferite ai sette prefetti piemontesi della Liberazione, redatte dai «colleghi» di carriera. Riesce difficile credere che i giudizi espressi allora non siano stati condizionati dal clima politico e dalla maggioranza di governo del momento, oltre che dal ricordo di quale forza politica ciascuno dei «giudicabili» rappresentasse il 25 aprile 1945.
Pier Luigi Passoni (socialista): «Il prefetto si mostra favorevole di massima per la concessione di un riconoscimento pur facendo qualche riserva sull’attività professionale» (39).
Guido Verzone (liberale): «Un eventuale riconoscimento avrebbe eco favorevole» (40).
Piero Fornara (socialista): «A giudizio del prefetto non sussistono motivi per formali riconoscimenti della sua opera, che, ove concessi, verrebbero discussi» (41).
Giovanni Cantono Ceva (liberale): «Ora in dissidio con il partito. Non si ravvisa opportuno un riconoscimento dell’Amministrazione» (42).
Enzo Giacchero (democristiano): «Un eventuale riconoscimento avrebbe eco favorevole» (43).
«Nonostante le difficoltà contingenti, egli si adoperò con intelligenza, fermezza e tatto per ristabilire la normalità nei pubblici servizi, dirimere i contrasti fra le varie correnti politiche, evitare eccessi repressivi e rappresaglie verso gli avversari e per sanare ed attenuare, per quanto possibile, le conseguenze dolorose della guerra e della lotta civile. Tale azione egli svolse con alto senso di equilibrio, imparzialità ed umanità, dimostrando di possedere spiccate doti di sensibilità politica e di avvedutezza amministrativa e mantenendo alto il prestigio della carica, sì da meritare, oltre che l’apprezzamento delle Autorità alleate, anche la stima e la gratitudine delle popolazioni. Il suo comportamento politico fu sempre correttissimo; era un esponente della D.C. cui diede appassionata ed efficace collaborazione. Funzionario serio, colto, intelligente e signorile, è ricordato con simpatia e gratitudine in tutti gli ambienti » (44).
Livio Pivano (azionista): «Un eventuale riconoscimento non incontrerebbe consensi » (45).
Questo giudizio del prefetto di Alessandria pro-tempore era parzialmente difforme dai pareri espressi da questura e carabinieri, naturali referenti dei prefetti quando devono acquisire dati di conoscenza e valutazione. La questura scrisse che Pivano « nei mesi di servizio si comportò con imparzialità e cercò di evitare rappresaglie politiche da parte dei partigiani nei confronti di cittadini e di elementi politicamente compromessi ». All’epoca (gennaio 1955) nell’ambito cittadino godeva scarse simpatie perché ambizioso e di carattere autoritario. Per i carabinieri il carattere troppo impetuoso di Pivano aveva trovato nel 1945 un freno nei collaboratori e ora un eventuale riconoscimento avrebbe lasciato la popolazione indifferente.
Per Carlo Galante Garrone (azionista) il medesimo prefetto, che si chiamava Filippo Di Giovanni, si pronunziò in termini addirittura negativi, senza fornire spiegazione: «Un particolare riconoscimento non sarebbe favorevolmente accolto » (46). Eppure, secondo la questura, l’ex magistrato aveva lasciato ad Alessandria un buon ricordo e per i carabinieri « pur nella caotica situazione dell’epoca egli cercò di evitare il più possibile rappresaglie politiche [...] la sua opera di governo per capacità, onestà, imparzialità, fu unanimemente apprezzata ».
Il prefetto di Torino, interpellato, dava atto che Galante Garrone era persona molto stimata per vasta cultura e rettitudine, pur ricordando che in alcuni ambienti torinesi era stato in passato criticato per le sue interferenze, sebbene fosse magistrato, nella vita cittadina (47).
Comunque sia, fosse già pregiudizialmente orientato in tal senso, il governo del tempo (presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Mario Scelba), raccolti i pareri dei prefetti, ritenne di non prendere in considerazione la proposta di attribuire un riconoscimento morale ai prefetti della Liberazione, anche solo sotto forma di iscrizione in un albo d’onore.
Finiva così, con questo strascico deludente, quella breve stagione in cui uomini in genere senza esperienza amministrativa ma portatori di grandi passioni e speranze, avevano rotto per un momento la crosta della burocrazia tradizionale che, una volta di più, era stata impermeabile ad infiltrazioni esterne e aveva poi maturato e compiuto nei loro confronti una postuma rivalsa.
 
Note
 
(1) R. FRIED, Il prefetto in Italia, Milano 1967, p. 192.
 
(2) Nella Rsi gli ultimi capi della provincia (nuova denominazione dei prefetti), tutti esponenti del partito fascista repubblicano, erano stati: Emilio Grazioli (Torino), Antonio Galardo (Cuneo), Alberto Zaccherini (Novara), Michele Morsero (Vercelli), Cesare Augusto Carnazzi (Asti), Mario Piazzesi (Alessandria).
 
(3) Nel necessario bilanciamento tra i diversi partiti, il posto di questore fu attribuito a Torino a un azionista (Agosti), a Cuneo a un comunista (Roggero), a Novara a un liberale (Tacchella), a Vercelli a un azionista (Avogadro di Collobiano), ad Asti a un altro azionista (Pastorino), ad Alessandria a un socialista (Punzo). Con analoghe modalità furono scelti sindaci, presidenti delle provincie, provveditori agli studi.
 
(4) «Antifascisti nel casellario politico centrale », 14 (1993), p. 170 sg.
 
(5) Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza, IV, Milano 1984, p. 457; Aspetti della Resistenza in Piemonte, Torino 1977, ad indicem; M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte: storia del CLN regionale, Milano 1962, ad indicem; G. CARCANO, Torino antifascista: vent’anni di opposizione 1922-1943, Torino 2005, pp. 75-79; Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, III, Bari 1980, pp. 231, 239, 435.
 
(6) Archivio di Stato di Torino, Archivio del partito nazionale fascista - federazione di Torino, b. 297, fasc. 102129. Anche uno dei viceprefetti politici di Alessandria, il comunista Carlo Boccassi, risulta che avesse chiesto l’iscrizione al Pnf nel 1933.
 
(7) R. OPERTI, Il tesoro della 4ª armata, Venaria 1946.
 
(8) P. CHIRICO, La polizia dell’Italia repubblicana: il caso di Torino 1944-1948, corso in
Materie letterarie, Università degli studi di Torino, a.a. 2002/2003, p. 221 (la tesi di laurea di
Paola Chirico è un lavoro di grande interesse, basato in buona parte su documenti del fondo
Giorgio Agosti conservato presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e
della società contemporanea).
 
(9) Aspetti della Resistenza in Piemonte cit., ad indicem; GIOVANA, La Resistenza in Piemonte
cit., ad indicem; web.tiscali.it/eurohumor-wolit/primalpe/biblio/cuneo.doc.
 
(10) Piero Fornara: il pediatra delle libertà, a cura di FRANCESCO OMODEO ZORINI, Borgomanero 2005; Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, II, Milano 1971 p. 400; E. MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della Resistenza novarese: uomini ed episodi della lotta di Liberazione, Novara 1984, pp. 745-747; 1945: dall’economia di guerra all’avvio della ricostruzione, Novara 1985, pp. 184-185; I deputati piemontesi all’Assemblea costituente, Milano 1999, pp. 194-202; C. BERMANI, Pagine di guerriglia: i garibaldini della Valsesia, I/II, Borgosesia 2000, pp. 492-493; G. MAGGIA, La liberazione di Novara, Novara 1975; sito dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio-Ossola.
 
(11) Enciclopedia storico-nobiliare, a cura di V. SPRETI, II, Milano 1929, p. 276 sg.
 
(12) A. A. MOLA, Giolitti: lo statista della nuova Italia, Milano 2006, p. 421.
 
(13) A. CIFELLI, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente, Roma s.d., p. 393, nota 147. Tutto avvenne celermente e tranquillamente, come auspicato dal prefetto Bracali.
 
(14) D. D’URSO, Enzo Giacchero pioniere dell’europeismo, Roma 2013, con bibliografia.
 
(15) Dumini era il capo della squadra responsabile del sequestro e assassinio di Matteotti.
 
(16) D. D’URSO, Giustizia ‘rivoluzionaria’: il processo a Walter Audisio e Livio Pivano, in
« Italia contemporanea », 268-269 (2012), pp. 573-589.
 
(17) Archivio di Stato di Alessandria, Gabinetto della Prefettura, 2° versam., bb. 33, 292, 429, 491; L. PIVANO, Meditazioni nella tormenta, Guanda 1947; Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza cit., IV, p. 644; G. MARANZANA, Livio Pivano: il precursore, l’animatore, Alessandria s.d.; L. LORENZINI, Fascismo e dissidentismo in provincia di Alessandria 1919-1925, Alessandria 1980, ad indicem; S. ZAVOLI, Nascita di una dittatura, Milano 1983, ad indicem; M. NEIRETTI, Livio Pivano (1894-1976) dall’interventismo all’opposizione in aula, in «L’impegno », 2(1984), pp. 3-10; M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte cit., ad indicem; C. MANGANELLI, Fonti per la biografia di Livio Pivano, in « Quaderno di storia contemporanea », 13 (1993), pp. 125-129; D. D’URSO, Livio Pivano, in « Il pensiero mazziniano », LXVII/3 (2012), pp. 40-46. L’archivio personale di Livio Pivano è conservato presso l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria.
 
(18) Com’è risaputo, Giuseppe ed Eugenio Garrone, fratelli di Margherita, caddero nella Grande Guerra e furono decorati di medaglia d’oro. Affinché fosse conservato il loro cognome, con decreto reale fu concesso ai figli di Margherita di aggiungere il cognome Garrone a Galante.
 
(19) Enciclopedia dell’antifascismo e della resistenza cit., II, p. 465; G. P. ROMAGNANI, Alessandro e Carlo Galante Garrone tra storiografia, politica e impegno civile, in I Galante Garrone: una famiglia vercellese del novecento, a cura di EDOARDO TORTAROLO, Vercelli 2004, pp.11-21; Galante Garrone Carlo in Dizionario della Resistenza: luoghi, formazioni, protagonisti, II, Torino 2001, p.835 sg. (è riportato, però, erroneamente che fu « nominato alla liberazione prefetto di Vercelli »); G. DE LUNA, Storia del Partito d’Azione, Torino 2006; GIOVANA, La Resistenza in Piemonte cit., ad indicem; C. GALANTE GARRONE, Vita e opinioni di Alessandro Prefetti, Milano 1992; G. VACCARINO, Il saluto, l’estremo, a Carlo Galante Garrone, in « Il presente e la storia », 51 (1997), pp. 209-214; sito dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea.
 
(20) P. MONTANARO, Storia dei coltivatori diretti nella provincia di Asti 1945-1955, Alessandria 1986, p. 32.
 
(21) R. BRACALINI, Paisà: vita quotidiana nell’Italia liberata dagli alleati, Milano 2008.
 
(22) G. F. VENÈ, La notte di Villarbasse, Milano 1987.
 
(23) CIFELLI, L’istituto prefettizio cit., p. 462 sg.
 
(24) Uno dei tanti episodi accaduti in quel tempo: Don Francesco Pellizzari parroco di Tagliolo Monferrato fu «prelevato» da sconosciuti nella notte tra il 9 e il 10 maggio 1945 insieme con un appuntato dei carabinieri e l’ostetrica del paese, tutti assassinati e sepolti in un luogo rimasto per sempre sconosciuto.
 
(25) M. DONDI, La lunga liberazione, Roma 1999, p. 97.
 
(26) Archivio di Stato di Alessandria, Questura, b. 21. Sul tema: G. CARCANO, Note sull’ordine pubblico a Torino dopo la Liberazione, in « Studi Piacentini », 8 (1990), pp. 73-106;CHIRICO, La polizia dell’Italia repubblicana cit.
 
(27) C. GALANTE GARRONE, Vita, morte e miracoli di un prefetto politico, in « Il Ponte », ottobre 1946, p. 866.
 
(28) Dal matrimonio con Sara Cimino erano nate Margherita nel febbraio 1941 e Alessandra nell’aprile 1945. Margherita è stata cantautrice e artista teatrale col nome d’arte Margot, Alessandra attrice e fondatrice della scuola d’arte di Bologna.
 
(29) Archivio di Stato di Alessandria, Gabinetto della Prefettura, 5° versam., b. 29.
 
(30) Vincenzo Ciotola era il prefetto di carriera che aveva sostituito Pierluigi Passoni a Torino.
 
(31) F. LUCIFERO, L’ultimo re: i diari del ministro della Real Casa 1944-1946, Milano 2002, p. 518.
 
(32) G. ROMITA, Dalla monarchia alla repubblica, Milano 1966, p. 61.
 
(33) C. PAVONE, La continuità dello Stato, Torino 1974, p. 282.
 
(34) FRIED, Il prefetto in Italia cit., p. 193 sg.
 
(35) Archivio di Stato di Alessandria, Gabinetto della Prefettura, 5° versam., b. 29.
 
(36) GALANTE GARRONE, Vita, morte e miracoli cit., pp. 873-874.
 
(37) Era il nome di battaglia da partigiano scelto da Giacchero.
 
(38) « Gazzetta d’Asti », 22 febbraio 1946 e 21 giugno 1946.
 
(39) CIFELLI, L’istituto prefettizio cit., p. 489.
 
(40) Op. cit., p. 484.
 
(41) Op. cit., p. 486.
 
(42) Op. cit., p. 489.
 
(43) Op. cit., p. 483.
 
(44) Op. cit., pp. 461-462.
 
(45) Op. cit., p. 482.
 
(46) L. cit.
 
(47) Archivio di Stato di Alessandria, Gabinetto della Prefettura, 5° versam., b. 3.
 
05/04/2015 17:14:26
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