(franco.livorsi@unimi.it )
- Così, attraverso lo studio sistematico dei fenomeni medianici della giovane cugina isterica Helly, iniziai il mio lungo viaggio nei misteri della mente.
Mi ero appena laureato, per la verità nel migliore dei modi, quando Bleuler mi offrì un posto da assistente in Psichiatria al Burgholzli di Zurigo, che era certo la più grande clinica psichiatrica della Svizzera e forse d`Europa. Accettai, anche se il distacco definitivo da Basilea fu per mia madre un duro colpo. Era il dicembre 1901.
Ero straordinariamente attratto da ogni fenomeno patologico della psiche, sia che questo si verificasse nei cosiddetti pazzi o nei cosiddetti normali (a partire dai miei colleghi). La pazzia è certo una tragedia sociale, che investe drammaticamente la vita di relazione di chi ne è colpito e delle persone della sua famiglia che debbano farsi carico di lui. Ma in sé, anche ammettendo una qualche alterazione cerebrale, è poi tanto diversa dalla cosiddetta normalità? Del resto, che cos`è un pazzo? Non è forse semplicemente un uomo dominato dall`inconscio non solo quando dorma, come accade a tutti noi, ma anche - per un tempo più o meno lungo a seconda della gravità dei casi - quando sia sveglio? Si può forse dire che siamo immuni da tali stati in tutti i giorni della nostra vita?
- Ma Lei poté verificare la relatività della malattia mentale anche in casi concreti, o questa fu una sua acquisizione della maturità e molto successiva?
- Me ne accorsi quasi subito, ad esempio vagliando la vicenda di una detenuta fatta ricoverare nel nostro ospedale psichiatrico perché ritenuta folle.
Io avevo, allora, ventisette anni. Debbo dire che da buon lettore di Charcot, ma anche di Freud e del suo amico Breuer, praticavo spesso l`ipnosi terapeutica: alla ricerca - nei casi dubbi - di quel che disturbava davvero i miei pazienti dalle profondità della psiche, e in generale per esercitare una suggestione calmante sul loro animo. A dire la verità ero anzi diventato, ben presto, un eccellente ipnotizzatore.
La donna in questione era una ladra di una quarantina d`anni, condannata ad una pena non grave. Era sempre stata "normale", ma in carcere pareva che fosse diventata pazza. Quasi ogni giorno denunciava furti subiti da parte di altri detenuti, o a dai secondini, che alla verifica risultavano del tutto immaginari. Era terrorizzata letteralmente - per diverse ore al giorno - dalla comparsa di un uomo vestito di nero, che a suo dire attentava alla sua vita.
- Ecco l`archetipo dell`Ombra, o del male, che faceva irruzione …
- Sì, anche se io allora non sapevo ancora nulla degli archetipi, né dell`Ombra. (O meglio, di quest`ultima sapevo molto, pur non chiamandola ancora così, perché la realtà psicologica del diavolo mi era ben presente sin dall’inizio, come avrà ormai notato).
La detenuta, inoltre, temeva ricorrentemente di essere stata avvelenata, e mostrava persino i sintomi dell`avvelenamento, ma naturalmente questo non aveva mai avuto luogo.
Il mio maestro, Bleuler, la mandò da me perché la esaminassi. Partii dal colloquio terapeutico, che pareva proprio il classico dialogo con una pazza.
La donna fu introdotta nel mio studiolo. Si muoveva un po` meccanicamente e parlava nervosamente. Non era brutta, ma era alquanto trasandata. La interrogai al modo "nostro" di allora.
- Dove si trova, signora?
- A Monaco.
- Ma dove?
- In un albergo.
- Ora?
- Non so.
- Qual è il suo cognome?
- Non so.
- E qual è il suo nome?
- Ida.
- Ma non è la sua seconda figlia a chiamarsi Ida?
- Ah, sì, è vero.
- Quando è nata?
- Non so.
- Da quanto tempo è qui?
- Non so.
- Si chiama Meier o Miller?
- Ida Miller.
- Ha una figlia?
- No.
- Ma sì che ce l`ha!
- Sì?
- È sposata?
- Sì.
- Con chi?
- Con un uomo.
- Che mestiere fa?
- Non so.
- Non è direttore di fabbrica?
- Sì, è direttore di fabbrica.
- Conosce una certa Godwina Franz?
- Sì, di Monaco.
- È lei Godwina Franz?
- Sì.
- Ma lei non si chiama Ida Miller?
- Mi chiamo Ida.
- È già stata a Zurigo?
- Non sono mai stata a Zurigo, però sono stata da mio genero.
- Conosce Benz?
- Non conosco nessun Benz, non gli ho mai parlato.
- Ma non è suo genero?
- Ah!
- Non è vero che lei è stata in casa di Benz?
- Sì.
- Conosce Carl Franz?
- Non conosco questo Carl.
- Ma suo fratello non si chiama così?
- Sì, è vero.
- E io chi sono?
- Il capocameriere.
Le mostrai un block notes e chiesi:- Che cos`è questo?
- La lista delle vivande.
Le feci vedere il quadrante del mio orologio, che segnava le undici, e le domandai:- Che ora è?
- È l`una.
- Quanto fa tre per quattro?
- Due.
Le indicai la mia mano aperta, e le chiesi:- Quante sono queste dita?
- Tre.
- No, faccia attenzione.
- Sette.
- Conti!
- Una, due, tre, cinque, sette.
- Conti fino a dieci.
- Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, dieci, dodici.
Eppure a tutte queste domande, sotto ipnosi rispondeva perfettamente. Solo alle domande relative al carcere non rispondeva correttamente neanche sotto ipnosi. Era dunque lì, e non altrove, il centro d`infezione mentale, ben inteso nella vicenda in questione. Si trattava dunque di un caso d`isterismo connesso alla sola condizione carceraria. Perciò nel mio resoconto clinico parlai, forse un po` impropriamente nella forma, ma non nella sostanza, di "psicosi carceraria".
- E la donna - chiesi io al vecchio Jung - restò lì o fu rimandata in prigione?
- Restò lì, naturalmente. Se il carcere le dava pazzia, sia pure epidermica, non era proprio il caso di farle scontare la pena là dentro, rischiando di aggravare i suoi mali.
- E che cosa le facevate per curarla?
- Niente di speciale. Cercavamo di ridurre la sua tensione emotiva, di trattarla con gentilezza, di avere per lei piccole attenzioni, di dare - del resto richiedevo questo trattamento per ogni paziente - un volto umano a quello che era quasi sempre stato un carcere un po` particolare (il “manicomio”). Pretendevo la massima pulizia, pasti buoni, fiori nelle stanze, ambienti lindi e grande cortesia e disponibilità nei confronti dei pazienti da parte del personale di ogni ordine e grado. Avevo infatti notato che tutto ciò aveva per i malati la più grande importanza.
- Comunque Lei, se ho ben compreso il caso di cui mi ha appena parlato, già allora, nonostante la sua giovane età, non condivideva affatto la tesi, allora molto diffusa, sull`isteria come una specie di pazzia simulata.
- Non la condividevo quando non vedevo simulazione. Ma badi che avemmo pure a che fare con pazienti in cui la simulazione era più che evidente.
Va però detto che in molti casi la simulazione stessa diventava malattia, cioè isteria, facendosi cronica, incontenibile, sino a non poter essere distinta - dal "bugiardo" stesso - dalla realtà. Ricordo ad esempio la vicenda di un operaio tessile sul quale dovetti fare una perizia psichiatrica.
Dall`esame della sua storia giovanile non risultava nulla di particolare, ad eccezione del fatto che suo padre gli aveva profetizzato che ben presto sarebbe finito in prigione. A sedici anni e mezzo il ragazzo era fuggito di casa. Si era messo a girare il mondo. Aveva lavorato in varie fabbriche per circa sette anni. A ventidue anni si era sposato. Il matrimonio era stato infelice, ma per causa sua. Era infatti un tipo irresponsabile, che dilapidava tutto quello che guadagnava. Dopo due anni aveva abbandonato la moglie, sottraendole persino i risparmi. Era emigrato in America, e là aveva condotto una vita da vagabondo e avventurosa. Dopo alcuni anni era tornato nella sua patria, che era la Germania, dove aveva girato in lungo e in largo facendo soprattutto il barbone. Poi era venuto nuovamente in Svizzera, dove aveva raggiunto la moglie, con cui si era riconciliato. Lei stessa, però, dopo qualche tempo aveva chiesto il divorzio. Egli l`aveva infatti abbandonata una seconda volta.
Sfruttando la buona fede di un compagno di lavoro, questo tipo si fece prestare una forte somma di denaro, che utilizzò per spassarsela. All`amico non volle restituire niente. Denunciato, venne arrestato e condannato a sei mesi di carcere. Scontata la pena riprese a vagare per la Svizzera.
A un certo punto cominciò a rubare. Arrestato, stette in carcere per sei mesi. Poi ricominciò a fare il ladro, e fu di nuovo catturato. Fu nell`occasione di questo secondo arresto che apparve infermo di mente. Nel primo interrogatorio, infatti, declinò sì i suoi dati personali correttamente, ma respinse ogni accusa con testardaggine; cadde in contraddizione e finì col dare risposte del tutto incoerenti e sconclusionate.
Di notte, in cella, era stato inquieto.
Gettava le scarpe sotto il letto.
Correva alle sbarre della finestra con la coperta e cercava di coprirla permanentemente, gridando, a un essere che non c`era:- Va via! Va via, maledetto!
Attirato dalle urla del giovane, accorreva un vecchio secondino.
- Si può sapere che c`è?
- Cercavo di coprire la finestra.
- Ma perché?
- Perché c`era uno che voleva a tutti i costi entrare.
- Ma chi vuoi mai che ci sia? Avrai fatto un brutto sogno. Cerca di dormire, e di lasciar dormire gli altri. Accidenti a te!
Il secondino uscì imprecando, chiudendo nuovamente la pesante porta, con i soliti molti giri del chiavistello.
Tornò a rivedere il prigioniero il giorno dopo, di primo mattino.
- Allora, giovanotto, hai poi dormito?
- Poco o niente, accidenti a voi ...
- Ti ho portato la colazione, signore ... Zuppa di latte a spese dello Stato ...
- Per me, puoi pure portartela via ...
- E perché? Il signore vuole le brioches?
- Sono sicuro che la tua colazione sarà avvelenata.
- Contento te!
E nel dir così il secondino uscì.
Il prigioniero allora cominciò a camminare nervosamente su e giù per la cella. A un certo punto, prese a gridare.
Aiuto! Aiuto!
Tornò il secondino.
- Che c`é ancora?
- Volevo dormire un po`, dopo una notte in bianco. Ma ci sono centinaia di ragni neri grossi come mosconi. Dovete spazzarli via, per carità …
- Ma tu sei matto! Io non vedo niente ...
Il secondino uscì di nuovo, mentre il prigioniero continuava sempre a camminare su e giù.
Intanto si era fatto sera. La luce scemava nella cella. Si accese la lampada sul soffitto. Si udì la chiave nella toppa. Entrò di nuovo il secondino, che aveva qualcosa da comunicare al prigioniero.
- Prendi i tuoi stracci e andiamo ...
- Dove, dove mi portate, in nome di Dio?
- Che fifa, ragazzo! Ti portiamo in una cella più grande, ma a più posti. La prima notte d`isolamento è finita. Ora dovrai coabitare. E comportarti bene, perché gli altri inquilini potrebbero innervosirsi … e romperti un po’ la testa.
Il detenuto fece un suo fagotto, chiuse tutto nella sua valigia e, con il secondino, attraversò un lungo corridoio. Entrarono in una cella in cui stavano altri due prigionieri.
- Ragazzi, - disse il secondino ironicamente - avete un nuovo compagno di stanza. Trattatelo bene perché è un giovanotto piuttosto sensibile ...
Un vecchio detenuto osservò:- Il letto libero è quello, fratellino. Accomodati e fattelo…
- Buona notte, ragazzi ... - disse il secondino.
- Notte, guardia - fecero eco i carcerati.
Durante la notte, all`improvviso, nella cella, si udì un urlo lacerante, come se qualcuno fosse sgozzato.
Uno dei vecchi detenuti si svegliò di soprassalto, esclamando:- Che c`è, accidenti?
Il nostro ladro rispose, profondamente turbato:- C`é uno sotto il mio letto ...
- Ma questo è matto ... - disse spazientito un altro.
Il vecchio detenuto, con indifferenza, notò:- Sarà stato un topo ...
Per tutta risposta il nostro giovane, più spaventato che mai, gridò:- Un topo?... No, no, era un uomo vestito di nero ...
- Su, su - fece il primo compagno con spirito di tolleranza - guardiamo bene insieme sotto il letto, se questo può tranquillizzarti. Ma poi vedi di lasciarci dormire, è ?
Guardarono sotto il letto. Com`era ovvio non trovarono nessuno ...
Apatico, il terzo e quarto giorno il nostro "amico" non rispondeva a nessuna domanda. Mangiava solo quando vedeva che anche gli altri lo facevano. E soprattutto straparlava. Ora affermava d`aver ammazzato la moglie. Ora che sotto il letto c`era un assassino armato di coltello.
Secondo il certificato del medico della prigione, trasmessomi unitamente al "matto" da vagliare psichicamente, questo Tizio dava l`impressione di essere un catatonico; era cioè come irrigidito permanentemente in un atteggiamento.
Ora voglio mostrarle la mia vecchia anamnesi in proposito.
Ciò detto il vecchio Jung si mise a scartabellare in un cassetto, traendone un foglio ingiallito, che prese a leggere ad alta voce, premettendo però, con orgoglio:- Senta qui... Così parlava il dottor Jung ventottenne.
"Il paziente appare ottuso, apatico; il volto ha un`espressione rigida, tonta. Si riesce a farlo rispondere solo a fatica. Dichiara correttamente il proprio nome e indirizzo, ma sembra disorientato sul tempo e il luogo. Gli si mostrano cinque dita ed egli dice che sono quattro; dieci dita, e dice che sono otto. Non sa leggere l`ora. Sbaglia in modo grossolano nel dire il nome delle monete. Si conforma agli ordini che riceve, ma li esegue in modo insensato. Gli si dice di chiudere la porta ed egli insiste nel voler infilare nella toppa la chiave con l`ingegno verso l`alto. Per aprire una scatola di fiammiferi ne rompe un lato.
È possibile che simuli. L`irrazionalità è troppo ben dosata. Si ipotizza che il paziente capisca benissimo gli ordini, ma che si sforzi di reagirvi nel modo più insensato possibile."
Dopo giorni e giorni di manifestazioni continue di follia o di semifollia, lo feci sottoporre a scosse elettriche, ossia a faradizzazione, come allora usava. Anche in tal caso la sua reazione fu scarsa. Tuttavia la mattina dopo, forse terrorizzato dalla prospettiva di dover ripetere simili esperienze, ritornò "normale", come emerse dal nostro colloquio. Finalmente accettò di svelare come stavano le cose.
- E va bene! - disse - Avete capito che non sto poi così male ...
Vuol sapere perché ho fatto tutte quelle sciocchezze?
Beh, sono stato arrestato. Ho una madre buona, e bravi fratelli e sorelle. Così sono caduto in una cupa disperazione per la vergogna di essere finito addirittura in carcere. Ero molto turbato davvero. Non sapevo che dire per giustificarmi. Così mi venne in mente di far apparire le cose peggiori di quanto non siano. Come pazzo non dovevo render conto di niente a nessuno, nemmeno per le mie azioni dette criminali.
Ma mi sono subito accorto che non venivo creduto. Mi è anche sembrato sciocco, a lungo andare, fare il matto. E poi non mi garbava di dover stare sempre a letto, formalmente ammalato.
In verità sono disgustato da tutto e penso sempre al suicidio.
No, non sono infermo di mente. Pure, a volte, mi sembra che non tutto nella mia testa funzioni regolarmente.
Non ho fatto tutta questa sceneggiata per risparmiarmi il carcere, ma per la mia famiglia. Mi ero proposto di essere onesto, e per nove anni, fino allo scorso autunno, quando mi hanno nuovamente arrestato, non avevo subito condanne.
Poi mi lasciai tentare dal furto e finii in gattabuia. Che dolore sarebbe stato, per i miei! Il pensiero della mia vecchia madre era, per me, motivo di insopportabile pena. Ero pentito per quanto avevo fatto. Mi vennero una tale paura ed un tale turbamento che pensai di sembrare ancora peggiore di quanto io non sia. Come semifolle, mi sarei almeno posto al di sopra di ogni giudizio dei miei.
Quando, subito dopo l`arresto e il primo interrogatorio, dovetti rientrare in una cella, non sapevo più che fare, da che cosa ricominciare. Mi sarei ammazzato, se avessi avuto un coltello. Pensai di simulare la follia e di vedere quel che sarebbe successo.
- Dunque era tutta una finzione ... E per finzione Lei ha persino fatto un digiuno di quattro giorni, simulando l`anoressia.
- Ebbene, questo Lei non lo crederà, ma non sentii il minimo stimolo di fame per tutto quel tempo.
- Questa non sarà pazzia, ma è certo isteria ...
E tutto quel suo vagabondare addirittura in diversi continenti, facendo il barbone in America e in Germania oltre che nella nostra Svizzera, come lo spiega?
- Vede, dottor Jung. Io mi sentivo come spinto da un`irrefrenabile inquietudine. Ogni volta che mi fermavo per un po` in un posto, ero assalito da un`indefinibile brama di libertà, che mi costringeva a ripartire al più presto possibile, qualunque fosse la situazione in cui mi trovavo.
A questo punto il vecchio Jung si rivolse a me.
- Il caso - osservò - era risolto.
- E quale fu, in sostanza - chiesi io - l`esito della sua perizia?
- C`era, secondo me, piena responsabilità per il furto, per il quale il giovane era stato incarcerato. Di ciò era dunque da ritenere colpevole. La progressiva simulazione non era invece condannabile, se non molto parzialmente.
- Perché?
- Ma perché, evidentemente, egli la controllava solo in misura assai limitata. Si concentrava a un punto tale nella simulazione da non poter più prestare attenzione a quello che gli si chiedeva. Si determinava un disturbo nello stare a sentire le voci esterne, simile a quello degli ipnotizzati, la cui attenzione è così incatenata in una certa direzione, voluta dall`ipnotizzatore, che essi perdono il controllo della realtà. In effetti un oggetto interessante può attirare a sé la nostra attenzione in misura tale che noi giungiamo a sentirci incatenati ad esso. Con gli isterici, come questo tizio "ladro", si va anche oltre: essi hanno la tendenza ad identificarsi sempre di più con l`oggetto che li interessa, a scapito di tutto il resto.
- Se non erro con ciò Lei vuol dire che questa persona era così presa dal suo sogno di follia da viverlo in pieno, sino a non sentire la fame per quattro giorni e persino sino a sentire debolmente le scosse elettriche.
- Esattamente.
- Fantastico ... E sull`isteria in generale che cosa ne evinse?
- Mi parve evidente che il punto di vista di autori del passato, i cui libri erano ancora adottati all`Università, e per i quali ciò che non concordava con i quadri clinici noti o con un sistema dogmatico di concetti non era da ritenersi malattia mentale, ma simulazione, dovesse essere considerato falso, rattristante ed antiscientifico. Il caso in questione non evidenziava una tara organica, ma faceva emergere una malattia della psiche che aveva una motivazione per così dire solo mentale, direi interiore: appunto l`isteria. Ma questo l`aveva capito solo Freud, in quel tempo.
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- Allora divenne freudiano?
- Non corra, non corra. Mi trovai sempre più convergente con lui, ma la convergenza divenne riconoscimento pieno, ed alleanza - non direi che vi sia mai stata identificazione - solo dopo che da anni avevo contribuito a scoprire, verificare e diffondere il mio “esperimento di associazione”, di cui ora dovremo parlare.
Cominciai a perfezionarlo nell`anno del mio matrimonio con Emma Rauschenbach, la cara compagna bella, colta e, sì, anche molto ricca, che accettò allora, dopo qualche resistenza, seguita da una corte disperata ed ostinata da parte mia, di condividere la mia vita. Emma mi aveva profondamente turbato quando era ancora una ragazzina. Avevo subito compreso che era legata a me fatalmente e misteriosamente. La nostra non fu mai una passione di tipo romantico, tormentata ed esaltante. Ma io percepivo la bella, solida ed intelligente Emma come la donna che poteva costituire il punto d’equilibrio della mia anima inquieta e che per parte mia io avrei potuto trascinare in una vita ricca di senso, quale non aveva mai neppure potuto immaginare nel suo mondo sereno, ma anche vuoto, di tipo alto borghese. Unendoci avremmo potuto realizzare una reciproca armonia. Lei, per me, era il porto sicuro, una donna che mi avrebbe dato una serenità di cui avevo bisogno e cui io avrei dato un amore solido e duraturo, in un’atmosfera niente affatto conformistica. Emma accettò infine di lasciare la bella casa del padre, che era un noto industriale, per venire a vivere con me nel piccolo alloggio del grande ospedale psichiatrico in cui lavoravo, che mi avevano messo a disposizione. Lì nacquero i nostri primi figli, a cominciare da Agata, che arrivò già nel 1904. Considero i miei cinque marmocchi - tutti sani, biondi e intellettualmente vivaci - una benedizione del cielo.
- Potrebbe pure parlare più ampiamente di quest`aspetto "privato", e luminoso, della sua vita. A me parrebbe interessante.
- No, è meglio di no, almeno per ora. E del resto che cosa si può raccontare sulla serenità? Come aveva compreso Schopenhauer solo la sofferenza del mondo è drammaticamente interessante. A tempo debito potremo forse fare altri accenni importanti. Semmai dovremmo parlare dell`esperimento di associazione, al quale accennavo.
- Poiché, se non erro, non ci rivolgiamo a un pubblico specialistico, potrebbe magari chiarirne prima la dinamica elementare.
- Volentieri. Diciamo innanzitutto che fu attraverso di esso che giunsi a scoprire i "complessi", di cui ora tutti parlano, a proposito ed a sproposito, anche in treno. Ma fui proprio io ad introdurre questo concetto nella comunità scientifica internazionale.
L`esperimento d`associazione consiste, com`è noto, in questo. Alla persona sottoposta all`esame si dice una parola, alla quale essa deve reagire dicendone un`altra connessa, con la maggior rapidità possibile.
Ci si attenderebbe che alle parole semplici ciascuno debba rispondere, tramite altra parola, con la stessa velocità. Soltanto parole difficili dovrebbero dar luogo ad un tempo di reazione più lungo. In realtà, però, le cose vanno altrimenti. Vi sono spesso tempi di reazione inaspettatamente lunghi per parole molto semplici, mentre parole più difficili ottengono una risposta rapida. Da un`analisi più approfondita risulta che i tempi lunghi di reazione si verificano per lo più quando la parola-stimolo colpisce un contenuto a forte tonalità affettiva. Il prolungamento del tempo di reazione, ponendo a confronto le parole in cui esso si verifica, fa affiorare gli elementi che nel profondo perturbano la personalità interrogata. I contenuti a tonalità affettiva che emergono per tal via riguardano di solito cose che la persona soggetta all`esperimento vorrebbe tenere celate allo sperimentatore. Si tratta di dati per essa penosi, e perciò rimossi, cioè cancellati dalla memoria cosciente, o addirittura - in certi casi - di contenuti ignorati - a livello cosciente - dallo stesso soggetto sottoposto all`esperimento. Quando una parola-stimolo colpisce un punto penoso del genere, al soggetto non viene in mente nessuna risposta; oppure gli vengono in mente tante di quelle cose che, per questo stesso fatto, egli non sa che risposta dare, oppure ripete meccanicamente la parola che gli è stata proposta o, ancora, dà una risposta e poi la sostituisce subito con un`altra. E così via. Questi sono tutti indizi significativi su ciò che nelle profondità della psiche lo tormenta.
Se, a esperimento compiuto, si interroga ancora una volta il paziente chiedendogli di dire quali risposte abbia dato alle singole parole-stimolo, egli riesce per lo più a ricordare bene le reazioni normali, mentre invece ricorda male le parole attinenti al complesso, che pure sono già emerse.
Noi conducevamo l`esperimento con quattrocento parole-stimolo circa. Le faccio un esempio. Se dicendole all`improvviso la parola "matrimonio", inframmezzata a tante altre, Lei, dopo aver esitato per un sacco di secondi, mi risponde - come capitava - dicendo: "disgrazia", o di fronte al verbo "baciare" Lei mi risponde, sempre dopo una pausa troppo lunga per non indicare resistenza psicologica, "mai", è evidente che nella sua vita amorosa c`é qualcosa che non va. E Lei per tal via me lo rivela anche se non vuole. Collegando le tante parole alle quali Lei ha resistito, io posso addirittura capire il genere di vicenda che ha determinato in Lei un complesso.
Questo vale persino per fatti criminali rimossi, tanto che con i miei esperimenti io giunsi a far confessare più di un delinquente. A volte i giudici, per quanto possa sembrarle ridicolo, si rivolgevano a me e alla mia équipe quasi come all`ultima risorsa contro sospetti malandrini. Li prendevamo, per così dire, con le mani nel sacco, “prendendoli in parola”.
Questo, però, non è il dato più rilevante della faccenda. Il tratto che dobbiamo mettere in primo piano è, piuttosto, la scoperta - per tal via per così dire sperimentale - della realtà dei complessi. L`esperienza, anzi, mi insegnò che le reazioni a parole-stimolo per cui occorrevano più di cinque secondi, erano sufficienti a far arguire la presenza di costellazioni a tonalità emotiva, cioè di punti di turbamento interiore tra loro collegati, che per questo io proposi di chiamare appunto "complessi", cioè insiemi omogenei di punti psichici disturbati.
- Mi diceva che per tal via a volte fece lo Sherlock Holmes.
- Sì, ad esempio una volta mi accadde di smascherare, con tale procedura, un giovane ladro.
Accadde nell`inverno 1904. Una sera venne da me un uomo attempato, in evidente stato di eccitazione.
- Dottor Jung, - mi disse - vorrei sottoporle una faccenda un po` strana. Forse non è cosa di sua diretta competenza, ma io spero che vorrà comunque darmi retta, nel nome della nostra vecchia conoscenza.
- Ma prego, parli pure liberamente.
- Bene. Deve sapere che da alcune settimane mi sono accorto che di tanto in tanto spariscono, dalla mia cassaforte, somme più o meno rilevanti di denaro. La cosa naturalmente è per me fonte di grande angoscia. E ho pure denunciato i furti alla polizia, ma senza potere - e per la verità neppure volere - dare alcun indizio.
- Senza volere?
- Sì, nel senso che la persona che in modo vago io sospetto è il mio carissimo nipote Hans.
- Lo stesso che venne da me due anni fa per un lieve disturbo nervoso, vero?
- Sì, proprio lui.
- Se non erro ora dovrebbe avere un diciotto anni.
- Appunto, dottore. E siccome allora ci eravamo trovati bene con Lei, io vorrei che cercasse di capire se è innocente o colpevole.
- Per mandarlo in prigione?
- Ma no! Che dice, dottore? Semmai per tener fuori la polizia dalla storia, ma anche per avere gli elementi certi che mi consentano di riprenderlo a dovere.
- Mmmm, e che dovrei fare, secondo Lei?
- So che Lei è un ottimo ipnotizzatore. Perché non me lo addormenta e poi lo interroga?
- No, no, questo non posso farlo. Sarebbe un mezzo troppo subdolo per far emergere la verità, e soprattutto non vale la pena di usare una via del genere se non a scopo terapeutico.
- Dunque, non può aiutarmi?
- No, no, potrei forse aiutarla, ma in altro modo. C`è un esperimento molto efficace, una specie di test della verità. Lei me lo porti, e vedremo quel che si può fare.
Fissammo l`appuntamento. Ad esso io giunsi con un formulario di cento parole-stimolo ben scelte, con incluse quelle particolari atte a far reagire il complesso.
Accadde così che parole come "ladro" si trovarono associate, dal ragazzo, a parole come "giovane", e parole come "denaro" con "colpa", e parole come "guardia" con "prigione": il tutto dopo intervalli di quasi dieci secondi l`uno.
Il complesso del ladro risultò tanto evidente dalle parole che egli associava ai termini-stimolo che io potei dirgli, con tranquilla certezza: "Lei ha rubato".
Il giovane Hans a quel punto impallidì, rimase profondamente perplesso e, dopo una breve esitazione, scoppiò in lacrime e confessò i furti senza più reticenze. E, quasi liberato da un vergognoso segreto tormentosamente celato, non rubò più.
Ma il caso più straordinario non fu questo, in tale ambito sperimentale, bensì quello di una giovane donna ricoverata nel mio reparto come ammalata - questi erano i termini di allora - di "melancolia". Secondo i medici che l`avevano mandata lì era schizofrenica o, come allora si diceva, colpita da dementia praecox (una prognosi infausta quant`altre mai).
Poiché era abbastanza presente a se stessa, la sottoposi al test di associazione.
- Allora, signora, - le dissi - ora proporrò delle parole. Ad ogni parola lei dovrà dire, più in fretta che può, la prima parola di risposta che le verrà in mente. Sono stato chiaro?
- Sì, sì, dottore, giochiamo ...
- Legno.
- Catasta.
- Quaderno.
- Penna.
- Carta.
- Linea.
- Ricordo.
- Rimpianto (disse dopo una lunga pausa).
- Amico.
- Ricco (osservò mestamente dopo un sospiro).
- Donna.
- Povera.
- Ricordo.
- Rimpianto (rispose dopo dieci secondi).
- Passeggiare.
- Sentiero.
- Cuore.
- Sanguina.
- Uccello.
- Lontano (notò sospirando).
- Veleno.
- Mamma (rispose dopo un notevole intervallo).
- Separare.
- Vita (disse molti secondi dopo).
- Anno.
- 1904.
- Amore.
- Mancato.
- Bambino.
- Morte (replicò con un grido).
- Caro.
- Dove sei?
Il test era terminato. Mi rivolsi alla paziente.
- Adesso dovrebbe aspettare qualche minuto.
Guardai e riguardai tutto in silenzio. Poi ...
- Ho finito. Se debbo valutare dai tempi delle risposte, e dall`emozione che vi ha messo, direi che Lei, cara signora, ha amato in gioventù un uomo ricco, che ha sempre rimpianto, e che associa l`idea del suo bambino all`omicidio.
La povera donna scoppiò in lacrime.
Attraverso molti colloqui del genere, ed anche attraverso l`analisi, in verità ancora freudiana, e per di più ancora rozzamente condotta, di molti tra i suoi sogni, riuscii a scoprire la triste verità. Decisi, dopo molti dubbi, di rivelargliela, contando sull`abreazione, cioè sulla reazione liberatoria che, sia pure in modo terribile, avrebbe potuto emergerne.
Perciò una mattina ...
- Signora - le dissi - io debbo rivelarle qualcosa che non dirò, in vita mia, a nessun altro. Glielo giuro … Stia tranquilla ...
- Un segreto? Che segreto?
- Lei, signora, è l`assassina del suo bambino, che tutti ritengono morto per disgrazia nella vasca da bagno.
Si coprì il volto e incominciò a singhiozzare. Poi ...
- Dio mio, e come lo ha scoperto?
- Lei stessa associa sempre l`idea di bambino a quella di omicidio, e quella di veleno alla parola mamma. E poi ci sono i suoi sogni, che per me parlano da soli. Vedo un grande amore giovanile mancato e l`assassinio di un bambino piccolo, che è necessariamente il suo. Non vuole raccontarmi? Io non lo dirò ad anima viva, stia tranquilla ...
- Ebbene, sì ... Deve sapere che io sono figlia di una cameriera dell`Albergo Reale di Basilea. Ho potuto fare gli studi superiori tra grandi ristrettezze, grazie alla mia mamma, che si sacrificò per me. A diciassette anni mi innamorai perdutamente di un compagno di scuola. Come sa bene, spesso è la donna a prendere l`iniziativa, ma io mi trattenni. Mi pareva un amore impossibile. Egli, infatti, era un milionario, oltre che un giovane molto bello e intelligente. Mi pareva di dovermi accontentare della sua cara amicizia. Ed egli me la dava nel modo più simpatico ed appagante. Ero diventata la sua confidente. E parlavamo tante ore, quasi ogni giorno, con una delizia mia che Lei non potrebbe neppure immaginare. Egli era un timido e non si spinse mai oltre. Io ero una ragazza per così dire "seria", per cui tutto, purtroppo, finì lì.
Verso i diciotto anni ci perdemmo di vista perché egli fece allora - al termine della scuola superiore - un lungo viaggio in Spagna e in Italia, prima di iniziare la fortunata attività commerciale alla quale era stato destinato dal padre.
Nel frattempo un giovane ferroviere si era innamorato di me, e la mia povera famiglia mi sollecitava a non lasciarmelo scappare. Pensavo sempre al mio Edoardo - così si chiamava il mio amato inarrivabile, - ma sentivo pure sia il richiamo dei sensi che il desiderio di sistemarmi, proprio della ragazza povera. Così dissi di sì al mio ferroviere. Ci sposammo ed avemmo presto due bambini.
Cinque anni dopo venne a trovarmi un vecchio amico, compagno di scuola dei tempi andati. Mentre chiacchieravamo ricordando i begli anni passati, egli mi disse: "Quando ti sposasti fu proprio un gran brutto colpo per Edoardo". Venni a sapere che in realtà egli mi aveva segretamente amata, anche lui, per anni e anni, senza osare dirmelo. Quando vi aveva accennato, io avevo preso la cosa come uno scherzo e l’avevo scoraggiato risolutamente. Ed egli, timido com’era, aveva troppo facilmente desistito. Cominciai a rimpiangere sia Edoardo che la bella vita alla quale avevo dato un calcio tanto scioccamente. Così caddi in una profonda depressione che, dopo alcune settimane, finì per provocare una vera catastrofe.
A quel punto la donna prese a singhiozzare silenziosamente. Poi, dopo essersi soffiata il naso, riprese il suo triste racconto.
- Stavo facendo il bagno ai miei bambini: Angela, di quattro anni, e Franz, di due. Vivevamo in campagna, in un posto in cui il rifornimento dell`acqua non era perfettamente igienico. C`era sì acqua di sorgente buona da bere, ma per lavarsi e per il bucato si finiva per dover usare acqua di fiume, che poteva essere infetta. Mentre facevo il bagno alla bambina, l`avevo vista mettersi in bocca la spugna, intrisa di acqua del genere. Chissà perché, trovandomi prigioniera dei miei pensieri tristi sul mio amore mancato, non mi curai di impedirglielo. Non intervenni neppure quando pure il maschietto fece altrettanto. La mia mente era ottenebrata. Era come se in quel momento stessi sognando.
Poco tempo dopo la bambina, che era la mia prediletta, si ammalò di febbre tifoidea e morì. Il bambino, forse più robusto, si ammalò egli pure, ma si salvò. Cominciai a sragionare. Avevo continui incubi a occhi aperti. Mi apparivano diavoli che volevano portarmi all`inferno. Piangevo di continuo. E dovetti essere ricoverata.
E qui, naturalmente, riprese a piangere sommessamente.
- E come andò a finire? - chiesi io al vecchio Jung.
- Dopo due settimane poté essere dimessa. Era del tutto guarita. E non ricadde mai più nella pazzia, che in realtà in tal caso era stata solo la maschera inconscia del suo terribile rimorso, che era vivo anche se lei stessa non era del tutto consapevole del suo omicidio, più o meno colposo.
- Discusse il caso con i colleghi?
- No, me ne astenni del tutto. Lo feci solo trent`anni dopo, e con psichiatri londinesi (sempre senza rivelare il nome della donna, naturalmente).
- E perché non ne parlò con i nostri colleghi?
- Temevo che la discussione del caso potesse aprire una questione legale. Naturalmente non c`erano prove contro la paziente. Tuttavia un dibattimento del genere avrebbe potuto avere conseguenze disastrose sulla sua mente, già così labile. Il destino l`aveva già punita abbastanza. Doveva andare così. La perdita della bambina era stata un profondo dolore, e la sua espiazione era già cominciata con lo stato di depressione e con l`internamento nel manicomio.
Che dire? In molti casi psichiatrici il paziente ha una storia che non è stata raccontata a nessuno, e che di solito nessuno conosce. Secondo me la terapia comincia veramente solo dopo aver indagato su questa storia personale. È il segreto del paziente la causa della sua rovina, che rappresenta pure la chiave del suo trattamento. Il medico deve solo sapere come scoprirlo e come farlo emergere in modo umanamente significativo per il paziente stesso. Il terapeuta deve porre quelle domande che colpiscono tutta la personalità del paziente e non solo i sintomi del trauma. In molti casi l`esplorazione del materiale cosciente non basta. A volte l`esperimento associativo di cui ho detto, o l`interpretazione dei sogni, o un contatto umano prolungato e ricco di comprensione, possono darci la chiave. Purtroppo ciò non è sempre possibile. A volte l`ammalato si sente inguaribile e condannato, e rinuncia a lottare con la propria nevrosi o follia.
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Al proposito voglio raccontarle un caso irrisolto, concernente una signora che non conoscevo, dagli occhi straordinariamente intensi e luminosi, alta e bruna, sui quarant`anni, che fu da me una volta soltanto. Ho ancora la scena innanzi ai miei occhi.
- Vuole dirmi il suo nome, signora?
- Perché? Non sono di Zurigo, e neppure di questa parte della Svizzera.
- Se dovremo vederci molte volte, come questo tipo di cura impone, sarà bene che io conosca tutti i suoi dati.
- Non sarà necessario, perché dopo questo colloquio non ci vedremo mai più.
- Non avrà in mente di fare qualche sciocchezza?
- Non se ne preoccupi. Ci tengo alla mia vita.
- Ma a che cosa Le potrà mai servire un solo colloquio? Nessuno può guarire in un`ora, da qualsiasi disturbo mentale.
- Senta, ho un gran peso sulla coscienza. Sento il bisogno di confessarlo a qualcuno. L`ho sentita parlare ad una conferenza ed ho poi letto molti dei suoi articoli. Sono certa che mi capirà e che non tradirà il mio segreto.
- Questo è sicuro. Sono medico ...
- E io pure lo sono, anche se da tanti anni non esercito più la professione.
- È sicura di aver bisogno di me e non di un confessore? Per un solo colloquio potrebbe forse aiutarla più di me.
- No. Intanto non ho la fede, e dunque non posso confessarmi. E poi, se andassi da un sacerdote avrei l`impressione di essere ascoltata solo perché quello è il suo dovere professionale, senza che vi sia vera comprensione dei fatti, o misfatti, ma solo con un intento moralistico, di cui io non mi curo affatto.
- Parli pure, signora. Sono tutt`orecchi.
- La storia risale a vent`anni fa. Avevo allora un`amica carissima, con la quale m`intrattenevo quasi quotidianamente.
Un giorno stavamo cavalcando insieme in una stradina che costeggiava un bel bosco quando fummo raggiunte da un terzo cavallo, guidato da un giovane biondo, notevolmente bello e dal sorriso dolcissimo. La mia amica lo conosceva molto bene.
- Oh, Fritz, sei tu?
- Pare proprio di sì. Questo non te l`aspettavi , cara, non è vero?
- Affatto. Qual buon vento ?
- Ti controllo perché mi stai troppo a cuore ...
Scoppiarono a ridere con aria di complicità.
- Non mi presenti la tua amica ?
- Oh, sì, scusami ...
Ci demmo la mano. Poi andammo a prendere un drink. E facemmo amicizia.
- Il giovane - chiesi alla paziente - era il fidanzato della sua amica ?
- Sì, da pochi giorni.
Qui la donna tacque. Poi:- Beh, per farla breve me ne innamorai perdutamente.
- Classico triangolo … E lui condivideva?
- Prese a provare per me molto affetto, ma non si spingeva mai oltre i limiti consentiti con l`amica più cara della sua fidanzata, neppure quando io facevo in modo di restare sola con lui. Pareva combattuto tra l`amore per me e quello per la mia amica. Alla fine, però, purtroppo decise per lei, definitivamente.
Io ero disperata. Presi ad odiare quella povera ragazza, che si frapponeva tra me e l`unico amore che a me paresse possibile per tutta la vita.
Avevo interiorizzato la lezione di mio padre, uomo ricco venuto su dal nulla; diceva sempre che la fortuna nella vita dipende dalla nostra capacità di vincere gli ostacoli senza guardare in faccia nessuno. E leggendo e rileggendo certi autori, come Gide o lo stesso Nietzsche, a torto o ragione mi ero fatta l`idea che la morale in effetti fosse un cumulo di pregiudizi pensati apposta - dall`inizio alla fine - per ostacolare i migliori con regole assurde, tanto elevate quanto convenzionali e contro natura.
Così, una volta in cui stavamo cavalcando su un sentiero di montagna alquanto pericoloso, senza che un secondo prima ci avessi neanche pensato colpii con la punta del bastone da montagna il cavallo della mia amica, che precedeva il mio, ferendolo. La bestia s`imbizzarrì e cadde nel burrone sottostante. Fu un attimo. Il povero animale si ruppe le gambe e la mia amica ci restò secca.
Finsi l`incidente. Le mie lacrime - di emozione, di paura, e un poco anche di rimorso - furono scambiate per disperazione "da amica del cuore". Il fidanzato stesso della scomparsa dovette farmi coraggio. E io, a mia volta, ne facevo a lui. Diventammo inseparabili. E dopo un anno ci sposammo.
A questo punto io, che avevo ascoltato il racconto dell`"amazzone" prima con angoscia e poi con orrore, chiesi:- E poi?
- Avevo sposato l`uomo che amavo, e non ero affatto pentita del prezzo spropositato da me pagato. Avevo agito per amor di lui, e in realtà della mia amica non m`importava un accidente. Tuttavia, purtroppo, già due anni dopo rimasi vedova. L’uomo da me teneramente amato, colpito da una malattia ai polmoni, se ne andò via in pochi mesi. Era destino. Da allora tutto prese ad andarmi storto, incredibilmente, come se gli elementi stessi congiurassero contro di me.
Avevo una sola figlia, nata da questo matrimonio. Non appena giunse all`adolescenza, fece di tutto per andarsene a vivere lontano da me. Mi respingeva istintivamente, senza motivo. Volle sposarsi a diciassette anni, dopo essersi fatta mettere incinta quasi di proposito dal suo giovane innamorato. E una volta sposatasi, non si è mai più fatta vedere.
- In che senso?
- Alla lettera. È andata a vivere nella città del suo uomo. Non mi ha mai scritto. Non ha mai risposto alle mie lettere. E se busso alla sua porta, si fa negare, o, se non può proprio sfuggirmi perché la incrocio per strada, neppure m`invita a pranzo. È terribile ...
E non è finita ...
Ho conservato una grande passione per i cavalli. Alcuni dicono che sono una vera amazzone. I cavalli da sella si può dire che assorbano tutto il mio interesse. Ebbene, un giorno ho dovuto scoprire che i cavalli, quando li cavalco io, si innervosiscono. Perfino il mio cavallo preferito, qualche mese fa, si è impennato gettandomi a terra. Alla fine sono stata costretta a rinunciare all`equitazione. Le pare possibile?
- Per me tutto è possibile. Anche la natura animale ha un`anima, o una psiche, non tanto diversa dalla nostra, almeno alla prima radice. Vale soprattutto per i mammiferi, che sono nostri primi cugini.
- Sì, - replicò lei con il volto triste sino alla morte - lo credo anch`io.
- La storia finisce qui?
- No, purtroppo. Nel mio “animalismo”, dai cavalli sono passata alla passione per i cani, negli ultimi mesi. Avevo un cane lupo straordinariamente bello, al quale tenevo moltissimo. Ma il "caso" - si fa per dire - ha voluto che proprio questo cane, il mese scorso, fosse colpito da paralisi. Sembrava che la natura stessa l`avesse punito per il bene che mi voleva. O almeno così credo io, purtroppo. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il calice.
- E cosa arguisce Lei stessa da tutto ciò ?
- Intanto ho voluto confessarlo a un esperto dell`anima, come Lei certamente è … Ma so già il risultato. Per la mia angoscia e solitudine non c`è rimedio, vero?
- Sì, c`è, ma solo se Lei andrà a confessare il suo delitto alla polizia. Non lo dico per moralismo ... In caso diverso secondo me Lei finirà per uccidersi.
Mi guardò con un mesto sorriso:- Ah, lo sa anche Lei?
- Sì, chi uccide è già condannato. L`azione provoca una scia, si proietta sulla vita. È quello che gli indiani chiamano karma, che per loro continua persino di vita in vita. Ma io non mi spingo tanto oltre. Mi basta notarlo in questa. Dico semplicemente che se uno commette un delitto ed è arrestato, subisce la pena inflittagli dalla giustizia. Ma se commette il suo crimine di nascosto e non è scoperto, la punizione lo raggiungerà ugualmente, come mostra il suo caso.
- Mi pare un moralismo un po` angusto, il suo: una via di mezzo tra i discorsi del parroco e i romanzi di Victor Hugo.
- Pensi un po` quel che vuole. Io parlo di effetti. Non giudico nessuno per principio. Il delitto chiama la pena. Se non è punito, la pena arriva ugualmente, per via interiore, come mostra proprio il suo caso. Qui la cosa è così palese che è come se persino gli animali lo sapessero. Essi la respingono. Lei rischia di precipitare in una solitudine insopportabile.
A questo punto del racconto io chiesi al vecchio Jung:- Andò a costituirsi?
- No, lo escluse con foga. Non lo avrebbe fatto per nessuna ragione al mondo. Era già mal ridotta così, diceva, e mai e poi mai avrebbe aggiunto a ciò la sua pubblica infamia.
- E come andò a finire?
- Molti mesi dopo, sfogliando un giornale di Basilea, vidi la fotografia della sconosciuta. Era una contessa italiana, in Svizzera da decenni, proprietaria di un allevamento di cavalli. Era precipitata - si diceva per disgrazia - in un burrone, con la propria cavalcatura. Naturalmente si era suicidata.
- Lei lo rivelò ?
- No di certo. Un medico deve tacere. E poi, perché mai avrei dovuto farlo? A chi sarebbe servito? In fondo era stata razionale sino alla fine. Aveva voluto lavare il proprio delitto con la propria morte, identica a quella dell`amica di vent`anni prima. Riposi in pace...
Ora però, Aniela, se è possibile dovremmo tornare a discorsi un po` meno tragici.
- Beh, possiamo tornare alla sua vita. Potrebbe dirmi se rimase per molto tempo un semplice assistente, in Clinica.
- In realtà la mia carriera fu abbastanza rapida, per mia fortuna. Già nel 1905 acquisii la libera docenza in Psichiatria. Poco dopo divenni primario della clinica psichiatrica dell`Università di Zurigo, e tale rimasi per quattro anni(5).
(Segue)
15 settembre 2006
[Le immagini di questa pagina, dall`alto verso il basso: Redon, Perseo e Andromeda; Redon, Il ciclope; Redon, Senza titolo; Chagall, Madre e bambino; Fuesli, L`incubo]