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Il paese dell'anima. Scene dalla vita di Carl Gustav Jung
Il paese dell`anima: XII) - Una nuova visione della psiche e della vita
Franco Livorsi

(franco.livorsi@unimi.it )

- E poi che accadde?

- In quello stesso periodo fui invitato a tenere una serie di lezioni sulla teoria psicoanalitica alla Fordham University di New York.

   Il contesto di rottura con i freudiani mi consentì di esporre per la prima volta in modo aperto e ampio una nuova teoria dell`inconscio. Mantenevo l`idea base della libido, o energia tendente all`amore, intesa come radicale di tutto l`inconscio (e dunque di tutta la psiche), ma allargavo notevolmente il significato da attribuire alla libido stessa, identificandola con l`energia vitale. Mi pareva infatti evidente che nella follia smetta di essere primario sia l`interesse erotico in senso tradizionale che il legame con la realtà. In tali casi si è ben al di là del conflitto tra realtà e istinti personali, o tra incestuosità e dominio del padre, con cui Freud voleva giudicare tutta la psiche.

     Se vuole possiamo vedere direttamente il testo in questione, che certo segnava, nella mia evoluzione, una svolta.

   Andiamo dunque alla Fordham University di New York. Siamo nell`Aula Magna, e io sto parlando ad una piccola folla di colleghi attenti e partecipi.

   Senta quel che dicevo e ci dicevamo.

 

- Debbo perciò dissipare l`illusione che la scuola psicoanalitica nel complesso possieda un concetto ben definito e chiaro di libido, o energia ciecamente desiderante, e affermare che la libido con la quale noi psicoanalisti operiamo non solo non è concreta o conosciuta, ma è addirittura un`incognita, una pura ipotesi, un`immagine o un`entità convenzionale, non concepibile più concretamente di quanto lo sia, del resto, l`energia fisica.

- Si può dire, - mi chiese un interlocutore - facendo riferimento ad una corrente della cultura contemporanea che raggruppa pensatori come il biologo e filosofo Driesh, o come il noto filosofo Bergson, o come lo psicologo Theodor Fechner, che la psicoanalisi sia una corrente "vitalistica", che fa derivare tutto da una misteriosa energia? E se sì, non teme con ciò di cadere nell`irrazionalismo?

- L`accusa di vitalismo non ci disturba affatto. Siamo tanto lontani dalla fede in una specifica energia vitale come da qualunque altra metafisica. Libido per noi è semplicemente il nome dell`energia che si manifesta nel processo vitale e che viene percepita soggettivamente come aspirazione e desiderio. Non sarà certo necessario difendere questa concezione. Vogliamo considerare ciò "vitalismo"? - E sia. Per parte nostra ci associamo semplicemente ad una potente corrente dei tempi, che vorrebbe comprendere in senso energetico il mondo dei fenomeni.

 Nella molteplicità dei fenomeni naturali vediamo il volere, la libido, nelle più diverse applicazioni e forme.

- E nel pazzo - chiese un altro collega - quest`energia desiderante come si manifesta?

- Il malato mentale grave, il pazzo, - spiegai io - ritira semplicemente la sua libido, la sua energia desiderante, dal mondo esterno, e, di conseguenza, soffre di una perdita di realtà, il cui equivalente è l`enorme accrescimento dell`attività fantasmatica. Sostituisce il reale con un mondo immaginario in cui i suoi conflitti effettivi, pur permeando sempre le sue visioni, sono cambiati in modo tale che egli si sente a casa sua, finalmente.

- Si può dire che il mondo del malato di mente, e soprattutto dello psiconevrotico, sia "anormale" perché fissato alla primissima infanzia, ossia a traumi o comunque a gravi problemi infantili di quella preistoria personale? - Questo mi pare un punto irrinunciabile per Freud e per la psicoanalisi. O non è più così?

- Per me - dissi io - questa visione retrospettiva, che vuol spiegare l`oggi con il passato remoto, è un errore, anche se da essa è venuto un benefico interesse per la fase della genesi della psiche: un interesse che ha rischiarato molto i processi mentali e tutti i punti di partenza decisivi della vita erotica (cui tutto si lega).

    Le dirò che dal mio punto di vista è persino una circostanza sospetta il fatto che i pazienti abbiano molto spesso l`esplicita tendenza a citare come causa delle loro sofferenze una qualunque vecchia esperienza infantile. Per tal via, a mio parere, essi distolgono abilmente l`attenzione dello psicoterapeuta dal presente, per indirizzarla su una falsa pista, in un remoto passato.

   Se non è il vecchio trauma ad aver significato per capire il disagio mentale più attuale, la causa prossima della nevrosi effettiva va cercata nell`arretratezza dello sviluppo affettivo presente. È vero che chi ha un grave conflitto psichico da adulto, generalmente lo aveva avuto, o ne aveva avuto uno, pure nell`infanzia. E tuttavia il conflitto dell`età adulta non è più lo stesso dell`infanzia. La nevrosi infantile, ad esempio, può essersi manifestata come grave conflitto nell`affettività nel momento in cui il bambino aveva preso ad andare a scuola. Allora si poteva essere manifestato il conflitto tra tenerezza indulgente e dovere, cioè tra l`amore dei genitori e le necessità della scuola. Oggi la stessa persona, da adulto, può soffrire il conflitto tra le gioie di una comoda esistenza borghese e le rigorose esigenze della vita professionale. Solo in apparenza si tratta dello stesso conflitto. È esattamente come quando un patriota tedesco delle guerre antinapoleoniche si paragonava agli antichi guerrieri germani che si erano ribellati al giogo romano. Lui era un discendente e i francesi erano i nuovi latini dominatori. Ma noi sappiamo che tra l`antico germano e il moderno tedesco c`è una bella differenza; così  accade pure tra il disagio psichico del bambino e quello dell`adulto, anche nella stessa persona. Quello che conta è il conflitto attuale; l`altro può essere solo una remota anticipazione.

- Ma allora - disse il collega che aveva fatto la prima domanda - dove va a finire il complesso di Edipo: l`incombere di padre e madre come un destino sul bambino piccolo, che poi lo segna per tutta la vita, nel bene e nel male?

- Tra le cose di grandissima importanza nell`età infantile, al primo posto stavano certamente i genitori. Ciò resta poi vero anche se essi siano già morti da tempo e potrebbero o dovrebbero aver perso qualunque significato. Anche allorché le condizioni di vita dei nevrotici siano completamente mutate, e persino quando i genitori siano già morti, i genitori sono in qualche modo presenti ed importanti per loro, quasi come se essi facessero ancora parte nella famiglia d’origine. L`amore e il rispetto, la resistenza, la ripugnanza, l`odio e la ribellione dei malati sono ancora incollati alle immagini dei genitori: immagini deformate in senso positivo o negativo, erette ad ideale di perfezione o a maledizione che li opprime, in forme che pure non hanno più molta somiglianza con la realtà del loro remoto passato. Questo fenomeno mi ha indotto a non parlare direttamente di padre e di madre, ma ad usare invece il termine di imago del padre e della madre, perché in queste fantasie non si tratta più propriamente del padre o madre reali, ma soltanto delle loro immagini soggettive e spesso completamente deformate, che nella mente del malato conducono un`esistenza schematica, sì, ma tutt`altro che priva di influsso.

- Ma che vantaggio ha, nel suo lavoro, privilegiando l`immagine o il fantasma dei genitori sui genitori in carne ed ossa? - Io non lo capisco proprio.

- Per tal via prendo sul serio le fantasie del nevrotico, e anche del pazzo, invece di vederle semplicemente come il portato, più o meno deformato, di piccole torbide storie di famiglia dell’infanzia. Considero quelle immagini o fantasie come miti dell`inconscio qui ed ora. Chi abbia anche solo una vaga nozione di mitologia non potrà ignorare i sorprendenti parallelismi tra le fantasie inconsce messe in luce dalla scuola psicoanalitica e le rappresentazioni mitologiche. Pare che l`inconscio, il quale vive anche di vita propria - parallelamente alla coscienza - esprima le sue verità di fondo, cioè l`equivalente di quel che sono i ragionamenti per la coscienza, attraverso grandi sogni, che sono veri e propri miti: grandi sogni appunto in tutto e per tutto simili a quelli della mitologia vera e propria, anche se intessuti di elementi personali.

- Ma perché il sogno - chiese un altro collega - deve avere un qualche contenuto inconscio non derivato dalla coscienza? Perché non debbo spiegarlo, in tutto e per tutto, come un residuo deformato - significativo quanto si vuole - della vita diurna? 

- Non mi fraintenda, - risposi - se sarò un po` duro. Ce l`ho con il suo argomento, e non con Lei.

 La sua obiezione pare a me la più antiscientifica che si possa immaginare. Ogni elemento psicologico ha il suo senso intrinseco, come ogni altro fenomeno. Non è logicamente necessario né razionalmente corretto sovrapporvi nulla che in esso non sia presente. Il sogno significa quello che dice, né più né meno. Si tratta solo d`intenderlo. È proprio come la poesia. Certamente ognuno sa che a prescindere dal contenuto manifesto la poesia esprime pure - per forma, contenuto e occasione che l`ha determinata - la vita del suo autore in un dato momento. Mentre il poeta nella sua composizione ha dato espressione ad uno stato d`animo momentaneo, lo storico della letteratura vede in essa, e dietro di essa, cose che il poeta stesso non avrebbe mai sospettato. Le analisi che lo storico della letteratura esegue sul materiale di un poeta si possono benissimo paragonare, quanto al metodo, alla psicoanalisi (compresi gli errori in cui lo storico incorre, che hanno il corrispettivo nei nostri, quando ad esempio affrontiamo il problema del senso dei sogni dei e con i nostri pazienti).

   In generale il metodo psicoanalitico si può paragonare all`analisi e sintesi storica. Prendiamo ad esempio in considerazione un rito notissimo (e il rito, si sa, è per lo più un`espressione concentrata di un mito interiormente significativo, ripetuto all`infinito): il battesimo. Supponiamo, ad esempio, di non capire che cosa sia il rito del battesimo così come viene praticato nelle nostre chiese attuali.

   Il prete ci dice che il battesimo ha il senso di introdurre il bambino nella comunità cristiana.

 Ma noi restiamo perplessi: perché con l`acqua? Perché col sale in testa al neonato? E così via.

 Allora per capire questo rito siamo costretti ad andare alla storia dei riti, cioè alle reminiscenze dell`umanità riguardanti atti simili a quello che vogliamo ora studiare. Così raccogliamo un materiale vario e da confrontare. E notiamo le seguenti cose:

1) Il battesimo rappresenta evidentemente un rito d`iniziazione, una consacrazione. Dunque bisogna considerare le reminiscenze che concernono i riti di iniziazione in generale;

2) Il battesimo si fa con l`acqua. E allora prenderemo in considerazione i diversi riti in cui è  centrale l`immersione nell`acqua;

3) Si devono raccogliere tutte le reminiscenze della mitologia, le usanze superstiziose, eccetera, che si svolgano in modo parallelo al simbolismo dell`atto battesimale.

   In questo modo otteniamo uno studio comparativo di scienza delle religioni sull`atto battesimale. Con ciò scopriamo gli elementi da cui è nato l`atto del battesimo. Sveliamo inoltre il suo significato originario, e al tempo stesso facciamo conoscenza con un ricco mondo mitologico, generatore di religioni, che ci permette di comprendere tutti i molteplici e profondi significati dell`atto del battesimo.

   Così procede pure l`analista dei sogni, o almeno così procedo io, e quelli che la pensano come me: raccoglie i paralleli storici, anche molto remoti, relativi ad ogni parte del sogno, e cerca di costruire una storia psicologica del sogno e dei significati che vi stanno alla base.

   Mi spiego, caro amico? - Per me il sogno è reale come qualsiasi altra esperienza della veglia. Su ciò la penso un po` come i pazzi, che sognano ad occhi aperti e considerano tutto quanto - quello che vedono loro come quello che vedono anche gli altri - come reale.

- Oppure - disse sorridendo un collega certo un po` portato al nichilismo filosofico - niente è reale, e tutto è fatto del materiale dei sogni...

- Si può anche dire così. Forse la realtà è fatta di bolle di sapone, cioè di un niente che esiste invece che di qualcosa che sia veramente consistente. È, dal più al meno, quello che pensano i buddhisti, che parlano della realtà come "anàtman", ossia non-àtman, non-essere. Ma non vorrei spingermi tanto lontano. Preferisco dire che tutte le esperienze vanno prese sul serio, essendo al tempo stesso vere e caduche, sogni compresi.

- Ma allora - fece un altro - il sogno diventa un discorso significativo non solo perché contiene frammenti di tutta la vita vissuta, e celata dentro di noi, ma anche per se stesso... Pare, anzi, che Lei pensi quasi che l`inconscio possa orientare la vita conscia. Non crederà anche ai sogni profetici per caso?  (E ciò dicendo sbottò in un risolino ironico, che però a me non fece né caldo né freddo).

- Lo so - replicai - che di primo acchito quello che affermo può sembrare assurdo. Ma non lo è poi tanto se si vorrà considerare qualche dato concreto. Desidero anzi risponderle raccontandole un caso per me straordinario.

   Una signorina mia paziente, dell`alta borghesia svizzera, soffriva di una grave forma di isteria in seguito ad uno spavento improvviso. Era diventata per questo estremamente apprensiva, aveva incubi notturni, non riusciva ad addormentarsi normalmente, soffriva di insonnia e di tremendi mal di testa, aveva sudori freddi ed era estremamente irritabile.

  Mi feci raccontare il fatto traumatico conscio, avvenuto un anno prima (quando la graziosa ragazza aveva ventiquattro anni).

 

- La prego, - le dissi - si sforzi di raccontarmi tutta la scena senza omettere nulla.

- Mi proverò, anche se per me è estremamente penoso ricordarla.

- Eppure è necessario, glielo assicuro.

- Ero stata, quella famosa sera, a un ricevimento, qui a Zurigo.

    Verso mezzanotte stavo tornando a casa in compagnia di alcuni conoscenti. Camminavamo un po` in mezzo alla strada, come si fa spesso a quell`ora.

   All`improvviso... sentii alle spalle una carrozza tirata da due cavalli che correva a velocità sostenuta.

   Tutti i miei amici si scansarono subito, e facilmente.

   Io, invece, presa dal terrore, feci la cosa più sciocca. Cominciai a correre, correre, correre davanti a me, con i cavalli alle spalle.

   Giunsi sul bordo di un ponticello sul fiume e, disperata per quei cavalli sempre più vicini, volevo gettarmi in acqua.

   Fui trattenuta a stento da alcuni passanti, mentre i cavalli passavano oltre.

 

- Prima di vedere che cosa tutto questo possa significare, mi permetta di farle alcune domande. Mi parli un po` della sua infanzia. Era una bambina paurosa, timida, complessata? Aveva problemi?

   La ragazza si mise a ridere. Poi osservò:- Ero un vero ragazzaccio. Amavo solo i giochi dei maschi: "Guardia e ladri", scontri tra bande di quartiere, inseguimenti e così via. Le bambine mi facevano solo ridere, e la mamma non riusciva a farmi appassionare a nessuna occupazione femminile.

- Dunque non era paurosa ...

- Ma proprio per niente, dottore ...

- E da ragazzina, al tempo delle prime simpatie per i ragazzi, come reagiva?

- I ragazzi non mi interessavano ... No, non mi fraintenda ... Non mi interessavano eroticamente né  i ragazzi né le ragazze. Tendevo a vivere in un mondo tutto mio, di pura fantasia, senza nesso alcuno con la banale realtà.

- Fu allora che conobbe la paura.

- Macché! Voglio anzi raccontarle un episodio. Ero a Pietroburgo nel gennaio 1905, al tempo della famosa "domenica di sangue". Avevo diciassette anni. Mi ritrovai in una strada proprio mentre questa veniva "ripulita" - come dicevano i militari – tramite la soldataglia dello zar, con fucili a ripetizione rivolti contro la folla.

   Tutti fuggivano in ogni direzione. Si sentiva l`assordante rumore degli spari, o quello degli zoccoli dei cavalli dei cosacchi che correvano all`impazzata.

   Alla mia destra e alla mia sinistra la gente cadeva morta o ferita, inseguita da cosacchi a cavallo armati di sciabola, ma io, avendo visto un portone che dava su un cortile, da cui si intravedeva un`altra strada, sgaiattolai dentro e passai dall`altra parte. Così evitai la fine di tanti poveretti.

- E come reagì? Provò terrore?

- Guardi, non ci crederà, ma non mi spaventai per niente. Non ne ebbi il tempo, e in seguito stetti benissimo: persino meglio del solito.

- Queste non sono certo reazioni isteriche. Indubbiamente dimostrò una bella calma e chiarezza di mente ...

   E nella sua infanzia ci fu qualche fatto traumatico che possa essere legato a quella maledetta corsa di cavalli dell`anno scorso?

- Veramente sì, anche se a me pare che questo non c`entri nulla.

- E se lo decidessimo insieme? - notai io ridendo.

- Effettivamente - notò - quando avevo sette anni ebbi una brutta avventura con i cavalli. Il mio cocchiere Franz mi aveva portato in carrozzella a spasso, come faceva spesso.

   I cavalli all`improvviso s`imbizzarrirono. e si diressero al galoppo sfrenato verso la ripida sponda di un fiume profondamente incassato. Pareva la nostra fine. Il cocchiere saltò giù. Disperato, mi gridava di fare subito altrettanto. Io, però, non sapevo decidermi. Ero terrorizzata, immobile per la paura. Ma all`ultimo momento riuscii a saltare, appena in tempo, perché un istante dopo cavalli e carrozza precipitavano nell`abisso.

 

   Qui un collega interruppe il mio racconto con aria quasi trionfante. - Lo vede - osservò infatti - che il trauma infantile salta fuori? - Che un simile avvenimento abbia lasciato tracce indelebili nella mente di chi l`ha vissuto è così chiaro che non ha neanche bisogno di essere spiegato.

- Non corra, non corra, caro collega. Tutto ciò non spiega né il coraggio in mezzo a cavalli cosacchi e fuoco di fucileria nella Russia del 1905 né una reazione come quella del correre davanti a sé con i cavalli alle spalle (di cui abbiamo parlato).

   Approfondii la ricerca, con opportune domande alla ragazza.

 

- Dov`era stata la sera dell`incidente con i cavalli di un anno fa?

- Da amici, gliel`ho già detto.

- Da che amici, e a fare che? Purtroppo non mi si può celare niente...

- Sono stata - rispose lei arrossendo - alla festa della mia migliore amica, Anna Stone.

- Un compleanno?

- No, no, una specie di lungo addio. Anna ha avuto un forte esaurimento nervoso. Partiva per l`Italia. L`abbiamo anzi accompagnata, poco prima che si verificasse il mio incidente, alla stazione: io, il marito Franz e alcuni altri...

- E i suoi rapporti con Anna e Franz come sono?

- Sono - disse arrossendo nuovamente - intimi, ma c`é stata pure qualche storia strana, se vuol proprio saperlo.

- Me la racconti. Mi interessa molto.

- Beh, Le dicevo che sino a ventuno anni gli uomini mi passavano accanto e io neanche li guardavo.

- Ebbene?

- Allora mi vedevo molto spesso con Anna, nel suo giardino, che è nella villa attigua alla nostra. La venivano spesso a trovare due amici, legatissimi l`uno all`altro: Franz e Carl. Franz veniva lì perché faceva la corte ad Anna, che lo ricambiava di cuore. A dire la verità piaceva molto anche a me. Era il più bello, e anche il più sveglio, dei due giovanotti. E quando lo vedevo sentivo un istintivo piacere. Forse andavo un po` in estasi. Ma spero che non si vedesse.

   Ma mi piaceva anche Carl, in modo un po` diverso. Mi faceva tenerezza. Mi sembrava più maturo, e anche più affidabile. Ed era davvero un buon amico.

   Forse però c`era anche qualcosa di ambiguo, come accadde nella storia dell`anellino.

- Storia dell`anellino?

- Ah, sì, che sciocca, Lei non ne può sapere niente. Ci fu, a quei tempi, una gran festa. Eravamo tutti presenti.

   Io veramente, pur in mezzo all`allegria generale, ero un po` assente, immersa nei miei pensieri.

 Stupidamente giocavo con il mio anellino al dito, tenendo le mani sotto la tavola. Me lo mettevo e me lo toglievo, me lo rimettevo e me lo ritoglievo.

    A un certo punto l`anello cadde sotto la tavola, risuonando come una moneta sul pavimento.

E io lanciai un gridolino di sorpresa.

   Carl, allora, andò sotto il tavolo e me lo porse sorridendo. Anzi, me lo mise addirittura al dito...

 - Lei sa che cosa significa, vero? - mi disse.

   Ma io, imbronciata, e in modo del tutto indelicato e irragionevole, me lo tolsi e lo gettai fuori dalla finestra.

   Subito mi sentii morire per la vergogna.

- Scusatemi, scusatemi tanto - dicevo -, specie Lei, caro Carl. Non so che mi ha preso... Debbo proprio essere matta... Forse dipende dal mal di testa... Debbo proprio andare a casa...

    

   Venne l`estate, e il cosiddetto caso volle che la ragazza trascorresse le vacanze nello stesso paese in cui stava pure la sua cara amica col giovane marito. L`uomo, certamente lusingato dall`evidente forte simpatia della ragazza, finì con l`assecondarla anche troppo. Non appena la moglie si ritirava in camera, aveva lunghe conversazioni con lei. Una volta la portò pure a fare un romantico giro in barca.

 

 Anna e Franz Stone erano finalmente soli, in barca, al chiaro di luna.

- Che bella sera! - esclamò lei -. L`emicrania di Anna è stata proprio provvidenziale.

   Ciò detto scoppiò a ridere. E Franz fece altrettanto.

  Il giovane uomo guardò la luna e osservò:- Che meraviglia!

   Egli continuava a remare sorridendo. Ma a un tratto la ragazza perse l`equilibrio e cadde in acqua.

- Dio mio! Dio mio! Aiuto! Aiuto! Franz, non so nuotare...

   L`uomo si buttò in acqua.

- Coraggio! Coraggio! - diceva -. Si attacchi a me, ma con calma, con calma, o affogheremo ...

   Gli mise le braccia al collo, stando coricata sulla schiena. 

- Ora con calma, tanta calma - disse ancora lui -, dovrà attaccarsi alla barca. Io impedirò che si rovesci e passerò poi dall`altra parte, per salire e tirarla su ...

  Quando furono a bordo l`uomo si distese accanto a lei, lasciò che si riprendesse un poco e poi, all`improvviso, la baciò appassionatamente.

 

 - Fu un episodio, cari colleghi, che apparentemente non ebbe seguito. Tutto parve finire con quel bacio appassionato. La ragazza, anzi, per amore dell`amica e per volontà di riparare, anche di fronte a se stessa, parve avvicinarsi in sommo grado all`altro uomo, amico di Franz: il quasi-fidanzato. Si parlava di nozze.

   La sua amica, però, aveva compreso la passione segreta della ragazza per suo marito e, quel che era peggio, quella del marito per la ragazza, e anche perciò si era fatta venire, cioè si era presa, l`esaurimento nervoso che l`aveva costretta a partire per l`estero. E al ritorno dalla stazione alla quale l`avevano accompagnata avvenne l`incidente con i cavalli di cui abbiamo parlato. Guarda caso, la casa amica più vicina in cui portare la ragazza, in stato di autentico choc, era proprio quella di Franz, momentaneamente scapolo. E qui la passione amorosa, quella notte stessa, tornò ad esplodere, ormai senza limitazioni.

   Vedete bene, ora, che tutta questa storia a un primo sguardo pare confermare la teoria di Freud sul ritorno del rimosso, cioè sul trauma infantile, incentrato sui cavalli che per poco non avevano portato la bimba a morire con loro in acqua. Infatti anche l`incidente traumatico recente ci mette dinanzi alla scena di cavalli che terrorizzano la paziente provocando in lei uno choc. In realtà lo spavento e l`effetto apparentemente traumatico dell`evento infantile sono stati realizzati nel modo particolare che è caratteristico dell`isteria, per cui la situazione inscenata sembra corrispondere alla realtà. Ma se guardiamo bene l`insieme degli eventi (caduta dalla barca compresa) sino al trauma ultimo per la carrozza in corsa alle spalle, vediamo che tutta la storia appare molto ben orientata verso il traguardo dell`amore finalmente realizzato, e consumato, nella casa del signor Stone. E ciò benché la coscienza della donna a ciò si opponesse costantemente. Ma l`inconscio, evidentemente, la pensava in un altro modo, non curandosi d`altro se non della realizzazione della sua passione, a dispetto di ogni ostacolo, principio o norma "ragionevole". Così è la vita.

- E che cosa evince, dottor Jung, da quest`appassionante romanzo-verità? - mi chiese un collega.

- Voglio semplicemente sfatare il mito dell`origine infantile della nevrosi, tipicamente freudiano. L`infanzia vale solo come una possibile precondizione. Ma quello che conta è come la precondizione giochi oggi. Se costruiamo la nostra teoria in modo tale da far derivare la nevrosi da cause poste nel più lontano passato, obbediamo soprattutto alla pressione dei nostri pazienti, che mira ad allontanarci il più possibile dal momento critico vissuto nel presente. E questo perché è soprattutto - non dico certo “esclusivamente” - nel presente che risiede il conflitto patogeno, generatore di disagio mentale. È esattamente come se un popolo volesse far risalire le sue disgraziate condizioni politiche attuali al passato remoto. È soprattutto nel presente che stanno i motivi centrali di conflitto, e le possibilità di eliminarli.

- Ma allora - chiese il collega - che cosa diventa la nevrosi, se non si radica più nel complesso di Edipo e nei connessi conflitti della prima infanzia?

- Secondo la vecchia teoria, di Freud, la nevrosi appare come una formazione, un modo di essere, cresciuta su radici infantili sino a soffocare lo sviluppo normale. Dal punto di vista dell`esperienza psicologico analitica mia, essa appare invece come una reazione ad un conflitto attuale, conflitto che naturalmente si verifica altrettanto spesso anche negli individui normali, i quali però sono detti tali perché lo risolvono senza eccessive difficoltà. Il nevrotico invece rimane incagliato nel conflitto e la sua nevrosi appare più o meno come conseguenza di questo suo sentirsi bloccato.

   Noi, vede, non ci domandiamo più se il paziente abbia un complesso paterno o materno, oppure se abbia delle fantasie incestuose inconsce. Non siamo della gente che si scandalizza facilmente, noi psicoterapeuti, sia ben chiaro. Sappiamo benissimo che ciascuno di noi ha un complesso paterno, o materno, o delle tendenze incestuose. Era un errore credere che solo i nevrotici ne avessero. Ci chiediamo, piuttosto: "Qual è il compito che il paziente non vuole svolgere? A quale difficoltà della vita cerca di sfuggire immergendosi nel suo complesso?"

   Ciò implica, da parte nostra, una concezione del tutto nuova del cosiddetto transfert.

- Vuole spiegarsi meglio?- chiese uno.- Qui non siamo tutti psicoanalisti. Molti non sono neanche freudiani, e altri, che lo sono, non comprendono come il transfert possa dividere Lei e Freud.

- Ha ragione - risposi -. La ringrazio della domanda, che mi consente di chiarire un punto per me decisivo, al cui approfondimento potrei anche dedicare decenni della mia vita (se ci saranno, come naturalmente spero).

   Tutti noi psicoanalisti chiamiamo transfert, o traslazione, il particolare rapporto empatico, ossia il fortissimo legame affettivo, ai limiti dell`identificazione sentimentale, con un’altra persona, di cui uno venga a sentire, nel modo più acuto, il bisogno: quasi come se l`altra persona fosse parte di se stessi. Accade così, con ogni evidenza, in ogni forma di innamoramento vero e profondo. Questo genere di legame assoluto, in forma per così dire spiritualizzata - sempre che una delle due parti, quella dello psicoterapeuta, sappia mantenerla in tali limiti - si sviluppa necessariamente, ad un certo punto, se l’analisi ha funzionato, tra il paziente e l’analista. Non appena la comunicazione tra paziente e psicoanalista si sia fatta profonda, ciò accade e deve anzi accadere. Chiamiamo transfert positivo il legame empatico, di affettività grande, che ha il tratto dell`amore. Chiamiamo transfert negativo quello che determina un`ostilità sentimentale altrettanto eccessiva (si sa che l`odio vero e proprio è spesso un amore alla rovescia).

   Ora Freud intende il transfert come una proiezione di fantasie infantili sul medico. Il paziente, già prigioniero della dipendenza da prima infanzia nei confronti dell`immagine del padre, sostituirebbe tale immagine con quella dello psicoanalista, proprio quando prenda ad emanciparsi dal padre. L`autorità assoluta, benigna o maligna, del padre, verrebbe momentaneamente proiettata sullo psicoanalista, come suo sostituto fantasmatico. Tale transfert va superato, anche per Freud, perché altrimenti il paziente avrebbe solo cambiato padre, ossia l’autorità assoluta interiore da cui dipendere totalmente (con amore oppure mordendo con rabbia la catena, come fa più o meno ogni figlio ribelle, risentito, che sembra odiare il padre per quanto lo ama). Ma Freud intende il superamento solo in negativo. Egli stesso, in un suo testo, ha confrontato la psicoanalisi all`arte di chi fa le statue, che dà forma alla pietra togliendo da essa quel che è in più rispetto alla forma voluta piuttosto che aggiungendo qualcosa che prima non c’era. Togliere il surplus negativo in tal caso vuol dire che il paziente, la cui fascinazione è evidentemente meno profonda e durevole di quella che aveva avuto con il padre, deve rendere per così dire laico il rapporto con il suo nuovo padre ideale, lo psicoanalista. Deve imparare ad accettarlo, senza vederlo né come il proprio dio né come il proprio demone. Ma in tal modo - noto io - la dipendenza dal padre rimane.

   Si insegna al paziente ad adattarsi all`autorità, ad accettare la realtà, a fare di necessità virtù, secondo un orientamento sostanzialmente conservatore. In pratica si cerca di spersonalizzare il principio d’autorità, andando al di là, dopo il superamento dell’antica autorità interiore del padre, di quella del nuovo fantasma del padre, che saremmo noi. L’uomo diventa quel che sarebbe stato o sarebbe se non avesse avuto o non avesse il complesso del padre. Rimane qual era stato, era ed è, complesso a parte. Il padre, o il vicepadre psicoanalista, regna sovrano nel Super-Io, come “principio di realtà” interiorizzato, con vocazione a diventare quello che lui aveva saputo essere. Non volendo cadere in un orientamento finalistico, di rinascita spirituale dell`uomo, e volendo invece restare fermi ad un`impostazione tutta causa-effetto, pretesa scientifica, si tolgono semplicemente al transfert, cioè alla passione cieca per l`autorità incarnata, le punte velenose. Si riconcilia insomma il paziente con il padre “immaginale”, sia questi il babbo vero e proprio, lo psicoanalista, o l`autorità in generale (che del padre è sempre - come si sa - un surrogato fondamentale). Si opera un`integrazione nel sistema, basata sulla subordinazione del singolo "per natura".

   Nonostante la polemica irreligiosa, ateistica, materialistica, pretesa laica, propria di Freud e compagni, si svolge così lo stesso ufficio caratteristico della chiesa cattolica, che rappresenta una delle più forti espressioni di questa tendenza a riportare la pecorella smarrita all`ovile, il figliol prodigo al Padre, il ribelle alla cosciente subordinazione all`autorità.

   Non oso dubitare del fatto che esistano numerosi individui i quali si trovano relativamente meglio in una condizione di costrizione esterna, di dipendenza passiva dall`autorità, che in una condizione la quale richieda il dominio di se stessi. È poi questo il tema della brillante commedia di Bernard Shaw Uomo e superuomo.

   Ma esiste pure una tendenza epocale individualistica, a liberarsi dall`autorità, in primo luogo interiormente: tendenza che io ritengo debba essere in tutti i modi favorita.

   Faremmo un grave torto ai nostri pazienti nevrotici se volessimo inserirli tutti forzatamente nella categoria dei non-liberi. Tra i nevrotici sono in realtà pochi quelli che hanno bisogno di essere richiamati ai loro doveri di cittadini (ossia gli asociali incalliti). Nella maggior parte dei casi i nevrotici sono anzi individui nati e destinati a diventare gli esponenti di nuovi ideali di cultura. Come diceva Nietzsche? "Io amo tutti coloro che non sanno vivere, anche se sono coloro che cadono, perché essi sono coloro che attraversano". Il disadattamento esprime il loro bisogno di diventare nuovi, di rinascere, anche se rischia - se non viene superato- di distruggerli completamente, e addirittura di condurre dalla nevrosi alla follia se esisteva la predisposizione organica latente per una tale degenerazione. Spesso i non-nevrotici sono persino peggiori dei nevrotici, perché hanno accettato di buon grado l`infantilismo, la dipendenza passiva dal mondo del padre (o anche della madre).

   Finché considereremo la vita solo a ritroso, ossia dal punto di vista dell`infanzia e del complesso del padre invece che del superamento del patricentrismo in quanto tale, non riusciremo mai a renderci conto dell`esistenza di simili casi, e non porteremo mai ai nevrotici la salvezza da essi sperata. Perché per tale via non faremo che educarli a diventare o ridiventare dei bambini obbedienti, e daremo così la preferenza proprio a ciò che li rende malati, vale a dire alla loro arretratezza conservatrice e alla loro sottomissione all`autorità. Entro certi limiti questo può andar bene solo per i soggetti infantilmente irresponsabili, che non hanno potuto ancora neanche piegarsi all`autorità, ossia acquisire l`elementare capacità di autodisciplina. Ma la forza che sottrae i nevrotici veri e propri alla loro relazione conservatrice con il padre non è affatto un desiderio infantile d`irresponsabilità bensì la potente spinta naturale a realizzare una personalità propria, la cui conquista è il loro vero compito esistenziale, al quale non possono rinunciare.

   Si tratta quindi di vedere nella nevrosi anche il tentativo di guarigione e perciò di attribuire alle formazioni nevrotiche anche un significato teleologico, cioè di spinta a realizzare un fine superiore. È come se con il proprio intollerabile tormento interiore il malato dicesse: "Così non posso andare avanti". Il tormento è l`indicatore della necessità di cambiare, così come - sappiamo oggi - la febbre esprime pure il bisogno del corpo di guarire, e il dolore fisico è pure una sorta di allarme dell`organismo, chiamato dal corpo a correre ai ripari contro il male incombente. Perciò noi non vediamo nella nevrosi qualcosa di innaturale e di morboso per definizione, ma anche un bisogno di trasformazione. Il paziente è simile ad un uomo che sia caduto in acqua involontariamente e stia per affogare. La nostra psicoanalisi non vuol tirarlo all`asciutto, ma insegnargli a nuotare e, anzi, farne un palombaro.

- Ma questo - notò acutamente un collega -, per uno che non sa neanche nuotare non sarà troppo? Non sarebbe meglio fermarsi al semplice riadattamento alla barca o alla terra ferma?

- Per me no - osservai -. Vede, il punto in cui il paziente è caduto non è casuale. Lì, nel profondo delle acque - se mi consente di seguitare con la mia metafora - giace pure un tesoro sommerso, che solo un palombaro può riportare a galla.

   Prendiamo le fantasie del paziente, a partire dai suoi sogni, e specialmente dai suoi grandi sogni. Perché queste fantasie, o anche i sogni che paiono disturbare, o i grandi sogni, contano tanto per il nevrotico? Perché da tale suo immaginario interiore non sa staccarsi e anzi vi torna sempre?

   Perché in realtà le fantasie lo richiamano, come uomo d`acqua, uomo-pesce, o palombaro, ad antichi tesori sommersi, che solo immergendosi nelle acque dell’inconscio egli potrà portare a galla. Il paziente è il prigioniero dell`immaginario. Non deve essere strappato ad esso. Deve diventarne il signore. Deve ora rivolgere intenzionalmente l`attenzione alla sua vita interiore, e pensare coscientemente e volontariamente a quel che prima sognava passivamente (a occhi aperti e soprattutto chiusi). Questo nuovo modo di riflettere su se stessi somiglia tanto poco allo stato mentale precedente quanto il palombaro all`uomo che stia affogando perché non sa neppure nuotare.

 

                                                                                   -----

 

 - Rientrai in Svizzera, e mi studiai di proseguire la ricerca da solo ed a confronto con i miei pazienti.

   Il piccolo mondo della psicoanalisi - che io, come Le ho mostrato attraverso la lettera a Freud su Dioniso e Cristo che ho voluto leggerle, avevo concepito come la fucina di una nuova scienza psichica, come un movimento che non solo avrebbe giovato ai malati, ma avrebbe potuto mutare l`intera coscienza civile condizionando in modo benefico l`atteggiamento mentale dominante dell`uomo dell`epoca ventura - mi mancava immensamente. Mi sentivo deprivato della comunità d`appartenenza. Pur essendo un uomo in qualche modo pio, non potevo trovare la vita comunitaria che mi mancava in una chiesa, ed essendo del tutto persuaso che il mondo si può cambiare solo a partire dall`interiorità non potevo certo trovare la comunità interiore in un partito, pur essendo un elettore fedele dei movimenti liberali democratici svizzeri. Mi pareva di vivere un`esperienza-limite straordinariamente ricca e al tempo stesso caratterizzata da un`intollerabile solitudine. Pure, questa solitudine, per quanto fosse tale da darmi a volte fantasie di suicidio, mi appariva come un destino da scegliere consapevolmente.

   Si figuri che al tempo in cui maturava il mio distacco da Freud avevo persino deciso di abbandonare la carriera universitaria. Ero libero docente di Psicologia all`Università di Zurigo, addirittura dal 1905, e parlavo tanto tanto volentieri con i giovani laureandi che si apprestavano a diventare medici psicologi. Credo di avere la vocazione del maestro. Ma avevo sempre sentito, e sentivo, che l`accademia mi chiudeva. Quel che io venivo elaborando di nuovo, a parte il vecchio esperimento di associazione da me perfezionato (che è appena un buon sistema di rilevamento  dei complessi), agli accademici non interessava affatto. Le ho già detto che persino dei miei studi sulla schizofrenia tutti quei signori avevano riso e ridevano, anche se erano frutto di grande ricerca, di tante intuizioni e pure di lunga pratica tra i pazzi. Sono fatti così. Lo aveva già scoperto Erasmo nel suo Elogio della follia, quattrocento anni fa, nelle pagine immortali sugli scolastici. Solo la rimasticatura del già scoperto e accettato, nei contenuti e soprattutto nel metodo, sembra aver valore per gli accademici. S`immagini come potevo io proseguire nelle mie azzardate ipotesi poggianti sulla realtà della psiche e sulle sue possibilità di rinascita.

   Per proseguire nella mia ricerca, cara Aniela, dovevo accettare la maledizione della solitudine intellettuale, anche a rischio di perdere il mio equilibrio psichico.

- Qui il suo caso pare simile a quello di quel Nietzsche di cui abbiamo già parlato. Non temette, caro professore, di poter fare la fine appunto di Nietzsche, impazzito forse anche per il carattere troppo arrischiato del suo viaggio dell`anima?

- Ha ragione. In effetti lo temetti. Molti sogni parevano quelli di un pazzo potenziale. Io stesso mi chiesi se per caso non dovessi fermarmi e deporre la spada del pensiero al chiodo, rinunciando ad andare oltre. Ma poi decisi di rischiare - tramite esperienze sulla mia stessa anima - perché tra il mio caso e quello di Nietzsche c`era una bella differenza, di status affettivo e professionale, a mio favore.

- E sarebbe?

- Non vorrei apparirle troppo vanitoso... Io ero pur sempre un tipo con una salute di ferro. Inoltre due donne straordinarie mi amavano moltissimo. (Qui posso dirlo). Alludo, naturalmente, a mia moglie Emma e ad Antonia Wolff (di cui avremo modo di parlare, e che del resto Lei ben conosceva). A me erano entrambe carissime. E poi ero carico di figli. Nel 1904 era venuta Agata, nel `6 Gret, nell`8 il mio carissimo Franz, nel `10 Marianne, nel `14 sarebbe arrivata Helene. Ed ero all`acme del successo professionale, anche internazionale. Avevo perciò un capitale di riserva non piccolo da mettere a repentaglio, prima di cadere nell`abisso della pazzia, immergendomi nell`inconscio come Nietzsche, che in esso era affogato.

- E come andò la cosa?

 

- Mi risolsi al "grande viaggio" negli abissi più profondi dell’inconscio sperimentando su me stesso qualcosa che in realtà non consiglio a nessun altro, a meno che non sia assolutamente certo del proprio equilibrio psichico. (Ma allora, se ha tale equilibrio, perché mai dovrebbe farlo? - Così, non lo consiglio a nessuno. O meglio, ciascuno può tentarlo, ma deve stare molto attento. È come se giocasse con un revolver carico e senza sicura. Potrebbe impazzire, oppure potrebbe diventare un tipo opposto a quel che vorrebbe: un Mister Hyde generato dal dottor Jeckill). Parlo del procedimento dell`immaginazione attiva, da me inventato a mio uso e consumo, come una sorta di tecnica meditativa per il viaggio interiore alle radici dell’inconscio che intendevo assolutamente fare, e fare a modo mio.

- So che vuol dire, ma credo che sarebbe bene spiegarlo qui. E, se mi permette, penso che sarebbe pure bene che Lei dicesse da dove l`ha tratto fuori.

- Avevo fatto tante letture sullo Yoga e sul buddhismo. Sapevo che cosa significava concentrarsi, o abbandonarsi alla psiche ed al suo flusso, lasciarsi andare nel pensare invece di controllare il pensiero. L`immaginazione attiva è proprio una tecnica meditativa, consistente nel lasciare che i pensieri, qualsiasi essi siano, scorazzino in noi senza controllo alcuno, senza freni, parlandoci... Quel che accade ai pazzi è accessibile ai non pazzi (senza che questi lo siano neanche mentre loro capita). Se ci si abbandona veramente al flusso immaginativo, emergono figure, esseri, che ci parlano come se fossero reali. E per il nostro inconscio, come per quello dei pazzi, lo sono. Si attua una specie di esperienza ai confini dell`inconscio. Se  essa viene sopportata e tollerata, ci trasforma e ci rivela l`indicibile. Altrimenti ci distrugge, come accade appunto ai pazzi, che si gettano o sono gettati nell’oceano senza neppure saper nuotare. Noi e loro abbiamo un`immaginazione che si scatena, non trattenuta dalla coscienza. Il rischio è forte. Ma se reggiamo, facciamo un`esperienza della Psiche, o dell’Essere, che veramente - come disse il padre Dante - "intendere non può chi non la pruova".

   Così entrai a contatto con una serie di figure che mi parlavano, tra le quali c`era una deliziosa ragazza cieca, che chiamai Salomè.

- Cieca? Perché cieca?

- Credo che rappresentasse il principio femminile, respinto dall`uomo moderno, il quale è tutto testa e niente cuore, e perciò è cieco ...

- Allude alla donna “fatale” che, istigata dalla sua grande madre negativa, fece tagliare la testa al buon Giovanni Battista inducendo il re Erode in tentazione?

- Sì, si può anche dire così… Ma la ragazza cieca, inconscia, avrebbe anche potuto non essere omicida.

   Tuttavia la figura centrale, che mi parlò in veste di Vecchio Saggio, e che io dipinsi pure, fu quella che mi disse di chiamarsi Filémone.

- La dipinse?

- Sì, vuol vederla? -Venga . È proprio sulla spalliera del mio letto.

   E nel dir così il vecchio Jung mi fece osservare il suo ritratto di Filemone.

   Il quadro mi ricordava il mondo fantasmatico della medium Helly, la protagonista della tesi di laurea di Jung, sui fenomeni paranormali. Infatti il saggio Filemone e i suoi compagni erano puri spiriti al di sopra della terra, e addirittura del sistema solare. Filemone aveva una tunica da uomo antico, che però poteva anche essere vista come una specie di saio da francescano. Sulla mano destra aveva una corona di fiori, forse d`alloro, che con umiltà porgeva ad una grande mano aperta, che poteva essere quella di Dio. Al suo fianco alcune figure sembravano ritrose, come se non potessero o volessero guardare quel dono della corona d’alloro porto alla grande mano dell’Eterno. Si distingueva poi un tipo incappucciato, vestito di nero, con una croce sul petto inscritta in un cerchio. Avrebbe potuto essere l`Ombra, o il diavolo rappresentato come un cavaliere nero, forse cinquecentesco. Al suo fianco stava un alto prelato, non meno indignato - e girato - del "diavolo" (ammesso che tale  fosse). Invece due persone anziane, pie, osservavano con devozione l`atto di omaggio a Dio di Filemone, che però da un lato poteva essere molto umile  e dall`altro molto carico di ybris, ossia di arroganza: come se uno spirito umano, antico, ellenizzante, in piedi, potesse incoronare Dio, visto in qualche modo "sotto l`uomo", sotto l`anima, sotto la psiche. Dietro il diavolo, non meno distaccato di lui dall`atto di Filemone, stava un vecchio più grande di tutti, che certo era Dio padre. Portava sandali da greco antico, forse in quanto Logos. Il tutto era dipinto con colori intensi, tra i quali prevalevano quelli rossicci, il giallo e un grigio o blù scuro che doveva far vedere che intorno alla luce si stagliavano le tenebre, e sottendere una dialettica tra il giorno e la notte.

- Bello, bello...- dissi io -. Mi fa pensare a De Chirico e ai surrealisti.

- Non esageriamo, Aniela. Io sono solo un modesto pittore dilettante. Col pennello cerco solo di visualizzare le immagini del mio inconscio.

- Ma lo fa piuttosto bene ... Quante forme circolari! Circolare la terra, circolare l`universo in cui essa sta, e la grande mano di Filemone tiene una corona, altro oggetto circolare ...

- La circolarità è la forma più alta del Sé, o dell`essere, o della psiche stessa, o del dio, se preferisce.

   Tornammo in studio.

 

- Forse potrebbe cercare di comunicare il significato generale, il messaggio, scaturente dai suoi dialoghi con le figure dell`inconscio, sentite e viste a occhi aperti. Pur scontando, e rispettando, la sua ben nota ritrosia in proposito, si sente di dire almeno qualcosa?

- Ecco: Filémone e le altre figure immaginarie mi fecero capire una cosa decisiva: che esistono nell`anima cose che noi non abbiamo affatto prodotto, ma che vivono di vita propria. Una volta Filémone, seduto proprio dov`è ora Lei, mi disse:

 

- Tu ti comporti con i tuoi pensieri come se fossi tu a produrli, ma essi invece vivono di vita propria, come animali nella foresta, o uomini in una stanza. Se tu vedi gente in una stanza non dici certo che l`hai fatta tu o che tu ne sei responsabile. L`anima è reale. La psiche è reale. Tu credi di pensare, ma in realtà sei pensato dalla psiche attraverso i tuoi pensieri. Come ogni creatura. Solo che tu puoi saperlo. L`uomo solo può saperlo, anche se ciò accade e vale per tutti i viventi.

 

- Sì, è la cosa più grande di tutte da capire, e da interiorizzare. E non è facile - dissi io al vecchio Jung.

 E lui:- No, non lo è neanche per me, talora ... Siamo troppo abituati a sentirci padroni in una casa - la nostra psiche - in cui siamo invece appena inquilini. Siamo troppo soliti considerarci unici, mentre siamo vissuti da un Vivente, e Pensante, che è in ciascuno di noi, in modo diverso: incredibilmente personale, ma trascendente la nostra singolarità …

- È questa la sua nékya?

- Sì, è la mia nékya, per dirla con i greci, da Omero in poi. È il mio viaggio nel mondo degli esseri immateriali, nello spirito, negli abissi della morte, dell`aldilà, dell`inconscio collettivo.

- Mi viene in mente Ulisse quando va all`Ade, nell`aldilà, a interrogare il morto indovino Tiresia sul modo per tornare a casa ...

- Già, si deve raggiungere, negli abissi della psiche, "la casa dell`essere", che è pure la casa del singolo: il punto da cui parte e al quale arriva l`avventura umana, il grande piccolo viaggio di ciascuno di noi.

- Ma Ulisse non è “l`eroe”, come Sigfrido? Dunque non era morto davvero l`eroe ...

- Era morto Sigfrido. Ma Ulisse , almeno nell`Odissea, è un tipo ben diverso da Sigfrido. Certo Odisseo ha varie cadute in un atteggiamento eroico umano troppo umano. Ha incredibili  manifestazioni di ybris, di “arroganza”, di smarrimento del senso del limite, e perciò di follia, che paga a carissimo prezzo: come quando sfida praticamente Poseidone, il dio del mare. Aveva appena dovuto accecarne il figlio, il mostro umano animalesco Polifemo, grande Ombra dell`inconscio collettivo, guarda caso figlia del mare (alias del dio che ad esso presiede, o inconscio collettivo). Aveva dovuto farlo, perché il mostro monocolo Polifemo mangiava i suoi compagni e si apprestava a mangiare pure lui. Ma invece di accontentarsi della vita salvata, sua e di tanti compagni, si gloriava dell’impresa con il semidio, o ciclope, accecato, con orgoglio da preteso superuomo: orgoglio spropositato, ed evitabile, che infatti attirava subito l`ira del dio del mare, Poseidone, padre di Polifemo, che cercava di impedire in ogni modo il suo ritorno “a casa”. Ma quest`orgoglio superomistico, quest`arroganza senza limiti, in Ulisse è una caduta: non è il suo essere caratteristico. In un certo senso Ulisse è sì un grandissimo eroe, ma è un "eroe per forza", come forse deve essere sempre il vero eroe. Il fine di Ulisse è il ritorno a casa, presso se stesso, in pace, in armonia, unito alla terra madre e alla donna del suo destino, nel suo proprio humus.

   Ma il suo riferimento a Ulisse, cara Aniela, è pertinente anche biograficamente. Infatti un giorno, mentre questa mia rinascita interiore, a contatto con i fantasmi dell`inconscio collettivo, si verificava, io feci davvero una bella gita in barca con Oeri e altri due amici. Lei sa che io sono un velista appassionato. E mentre loro armeggiavano alle vele, leggevo ad alta voce la storia della nékya di Ulisse, il suo viaggio tra le ombre, nel regno dell`inconscio collettivo, fra i morti. 

   Solo immergendosi nella morte l`uomo poteva nascere a vita nuova, tornare a casa.

 

  La barca a due vele procedeva tra i flutti, verso le nuvole bianche che parevano immergersi nel lago stesso. E io leggevo, con voce commossa:

"... Detto così, andò via nella casa di Ade

l`anima del signore Tiresia, dopo che disse i responsi.

Ma io stetti immobile, finché sopraggiunse mia madre

e bevve il sangue fosco come nube. Subito mi riconobbe

e piangendo mi rivolse alate parole:

  "Figlio, come sei giunto nella tenebra fosca

da vivo? Vedere questa landa per i vivi è difficile:

ci sono grandi fiumi di mezzo e terribili vortici,

e anzitutto l`Oceano che a piedi non si può

traversare, se non hai una nave ben costruita.

Arrivi qui ora da Troia, avendo vagato

gran tempo con la nave e i compagni? A Itaca

non ci sei stato, non hai visto nella casa tua moglie?"

  Disse così ed io rispondendole dissi:

"Madre, il bisogno mi ha condotto da Ade

per chiedere all`anima del tebano Tiresia.

Non giunsi mai vicino all`Acaide, non toccai mai

la nostra terra, ma sempre, con dolore, ho vagato,

fin da quando ho seguito il chiaro Agamennone

ad Ilio dalle belle puledre, per combattere contro i Troiani.

Ma dimmi una cosa e dilla con tutta franchezza:

quale fato di morte spietata ti vinse?

una lunga malattia? o Artemide saettatrice,

colpendoti con i suoi miti dardi, ti uccise?

Dimmi di mio padre e del figlio che ho lasciato laggiù,

se la mia dignità l`hanno loro, o l`ha

qualche altro e dicono che mai tornerò.

Svelami il volere e il pensiero della mia legittima sposa,

se sta con mio figlio e serba come prima ogni cosa,

o l`ha sposata qualche nobile Acheo".

 Dissi così, e subito ella rispose, la madre augusta:

"Certo che ella rimane con animo fermo

nelle tue case! Tristi le si consumano

sempre le notti e i giorni versando le lacrime.

E nessuno ha il tuo nobile ufficio, ma Telemaco

amministra tranquillo le terre e partecipa

ai giusti conviti, di cui è bene si curi chi rende giustizia:

tutti infatti lo chiamano. Tuo padre se ne sta sempre là,

nel suo campo, e non scende in città. Per giaciglio non ha

letti e coltri e coperte lucenti,

ma dorme d`inverno dove dormono in casa gli schiavi,

nella cenere vicino al fuoco, e indossa miseri panni.

E quando poi viene l`estate e l`autunno fiorente,

dappertutto per lui sull`altura del podere a vigneti

sono sparsi per terra giacigli di foglie cadute.

Lì egli giace accorato, la pena gli si ingrossa nell`animo,

piangendo sulla tua sorte: aspra la vecchiezza l`ha colto.

E così son finita anche io e ho subìto il destino.

Non fu l`abile saettatrice che in casa,

colpendomi con i suoi miti dardi, mi uccise,

né mi venne una qualche malattia, che spesso

toglie la vita con l`odiosa consunzione del corpo,

ma il rimpianto di te, dei tuoi saggi pensieri, illustre Odisseo,

del tuo mite carattere, mi tolse la dolcissima vita."

 Disse così, e benché dubbioso nell`animo io volevo

abbracciare l`immagine di mia madre morta.

Tre volte tentai e mi spinse ad abbracciarla il mio animo,

e tre volte mi volò dalle mani simile a un`ombra

o a un sogno. Diveniva sempre più acuta la pena nel cuore,

e parlando le rivolsi alate parole:

 "Madre, perché non m`aspetti mentre voglio abbracciarti

per saziarci di gelido pianto ambedue

gettandoci anche nell`Ade le braccia intorno?

Oppure questo è un fantasma, che a me l`insigne Persefone

manda, perché piangendo io gema ancora di più?"

 Dissi così, e subito ella rispose, la madre augusta:

"Ohimé, figlio mio, il più misero di tutti gli uomini,

Persefone, la figlia di Zeus, non ti inganna,

ma la legge degli uomini è questa, quando si muore:

i nervi non reggono più la carne e le ossa,

ma la furia violenta del fuoco ardente

li disfa, appena la vita abbandona le bianche ossa

e l`anima vagola, volata via, come un sogno.

Ma volgiti in fretta alla luce ..."

 

  

La giornata era finita. Il sole al tramonto era più rosso che mai. Salii sulla mia piccola automobile e mi diressi verso il centro di Zurigo. Mi fermai presso la Biblioteca Municipale, e proprio lì incontrai l`amica Marie-Louise Von Franz, che conosceva bene Jung, di cui era stata per e da tanti anni paziente, allieva, amica e collega. Naturalmente mi chiese notizie sull`"autobiografia".

- Come vanno le memorie del nostro grande vecchio? Siete a buon punto?

- Siamo proprio "nel mezzo del cammin di nostra vita" ...

- Sta parlando della sua nékya: del suo grande viaggio alla fonte dell`inconscio collettivo?

- Sì, proprio di quello. Ma tu già lo sapevi?

- No, ma l`ho capito dalle tue parole. Hai citato l`inizio del grande viaggio di Dante, no? 

   Conosco, del resto, tutta la storia di quel viaggio straordinario di cui parlate ora: viaggio che a tratti, in tanti anni, Jung stesso mi ha raccontato.

- Fa davvero pensare al viaggio di Dante dall`inferno al paradiso.

- Sì, è così. Non so se la mia suggestione sia troppo forte, ma io credo proprio che il viaggio di Jung in quelle profondità della mente - nell`aldilà in fondo - anticipi la rinascita del nostro mondo, così come il viaggio di Dante anticipava lo spirito del Rinascimento. Ma il viaggio di Jung, ancor più profondamente ed estesamente di quello di Dante, porta ad una più vasta rinascita dello spirito del nostro tempo.

  È la nostra scommessa, non è vero?"(12)

    3 novembre 2006       

[Le immagini di questa pagina, dall`alto verso il basso: Bergson; Driesch; Fechner; Nietzsche; Il dipinto di Jung:Filemone; affresco della seconda metà del I sec. a. c.: Ulisse nell`Ade]

 

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