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Storia
Storia di Guglielmo VII, marchese di Monferrato
Giancarlo Patrucco
Ieri lunedì 17 febbraio, nei locali di Palatium Vetus, sede della Fondazione CRAL, si è tenuta un’affollata conferenza che ha avuto come tema: Ascesa e caduta di Guglielmo VII Marchese di Monferrato, Signore di Alessandria. Le due relazioni, sulla storia del marchese e sui suoi rapporti con Alessandria, sono state curate dal Circolo dei Marchesi del Monferrato e dal suo presidente Roberto Maestri.
Vi riportiamo qui la storia di Guglielmo VII, nonché alcune delle immagini che hanno puntualizzato la narrazione.
 
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Sarebbe azzardato pensare di esaurire qui la complessità della figura di Guglielmo VII, Gran Marchese di Monferrato. E sarebbe sbagliato credere di poterlo fare, ricorrendo esclusivamente a una narrazione cronachistica del suo agire. Ne risulterebbe un lavoro affastellato, greve e di difficile lettura, perché l’uomo è stato appunto grande e le vicende che lo hanno visto coinvolto altrettanto grandiose e complicate. Procederemo, dunque, a narrarne la storia, chiarendola intorno a quelli che riteniamo gli elementi fondamentali del suo operato, che sono poi quelli comuni a molti dei protagonisti del secolo in cui ci ritroviamo: l’approccio dinastico, quello diplomatico, quello politico e, ultimo ma nient’affatto tale, quello militare.
Integrandoli, in un’analisi a volte differenziata, ma comunque unitaria, perché è soltanto attraverso l’intreccio di questi quattro elementi che potremo ricostruire il percorso storico del Gran Marchese. Percorso per nulla rettilineo, bensì frastagliato e sfaccettato com’erano d’altronde le vicende di quei tempi.
 
Cominceremo, cercando di inquadrare l’inizio della sua avventura, anche se le date non sono del tutto certe e i riferimenti di qualche storico che se n’è occupato risultano da calcoli un po’ avventurosi. Per esempio, il Tricerri:
L'anno preciso della nascita di lui è incerto, e lo si può soltanto congetturare da due dati che ci riconducono a produrre un' epoca approssimativa. Il primo è l'atto di matrimonio tra Bonifacio II e Margherita, figlia secondogenita di Amedeo IV, conte di Savoia, atto che viene citato dal Sangiorgio e riportato integralmente dal Guichenon.  Questo breve, ma importante trattato, è del 9 dicembre del 1235, e viene stipulato in Chivasso…
 …L'altro dato, dal quale si può pure arguire l'anno di nascita di Guglielmo, vien fornito dall'atto del matrimonio contratto da Guglielmo stesso, atto fattosi similmente in Chivasso, nella casa dell'abate di Lucedio, nel 1257. In esso parlasi di questo marchese, il quale allora passava i 14 anni di età. Quindi Guglielmo sarebbe certamente nato fra il 1236 e il 1242. Tuttavia è da preferirsi il 1236 perchè possiamo con ragione credere che egli, appena raggiunta l'età maggiorenne di anni 21 (cioè nel 1257), pensasse subito a scegliersi una compagna sul trono, come si dirà in seguito.  
Salvatore Tricerri, Il grande marchese di Monferrato,
RSAA, 1908, (in due fascicoli) fasc. I, pag. 32
 
Ma a rimettere le cose a posto pensano Settia:
Guglielmo nacque intorno al 1240 dal marchese di Monferrato Bonifacio II e da Margherita di Savoia, poco dopo la sorella Alasina, poi moglie di Alberto di Brunswick… Il (suo) primo atto ufficiale, compiuto il 12 giugno 1254, fu il rinnovo del giuramento di fedeltà per i luoghi che i marchesi di Monferrato tenevano in feudo dal vescovo di Ivrea, atto che ripeté, non appena uscito di tutela, nel gennaio 1257.
Aldo A. Settia, Guglielmo VII,
in Dizionario Biografico degli Italiani, 60, Roma 2003, pp.754-769.
 
e Bozzola:
Che a Guglielmo fosse applicato, come termine della minorità, il quattordicesimo anno, si può dedurre dall'assicurazione che fa l'abate dì Lucedio all'atto del suo fidanzamento con Isabella di Gloucester, nel 1257, che esso marchese eccedeva l'età di quattordici anni» (Benvenuto Sangiorgio, 390)
Annibale Bozzola, Un capitano di guerra e signore subalpino. Guglielmo VII di Monferrato (1254-1292).
Torino 1920 [estratto da “Miscellanea di Storia Italiana”, 19 (1920), 3 serie, p. 299 nota 3.
 
Quindi, nel 1257, Guglielmo esce dalla tutela della madre e anche dalla cura dei tutori che suo padre Bonifacio aveva assicurato a garanzia dell’integrità del Marchesato: Tommaso di Savoia, Giacomo del Carretto, lo zio naturale Bastardino e i Comuni di Asti e di Pavia, cui è affidata la protezione delle terre e dei vassalli.
Questo elenco è indicativo delle traversie che il giovane Guglielmo è destinato a incontrare in una vita d’intrighi e di battaglie, ma anche sintomatico dei guai che il Marchesato sta attraversando in quel momento. Basta guardare una carta dell’epoca e scorrere le cronache del tempo per rendersene conto.
 
Le grandi gesta compiute in Terrasanta da Guglielmo V il Vecchio e dai suoi figli, Guglielmo Lungaspada, Ranieri, Corrado, Bonifacio, fanno brillare il blasone dei Monferrato in tutti i consessi europei. La difesa di Tiro, la conquista di San Giovanni d’Acri, i matrimoni e le morti, chi per pugnale chi per veleno, rapiscono la fantasia dei giovani rampolli e fanno brillare gli occhi delle giovinette in ogni corte. La fama è tanta che, nel 1204, Bonifacio I di Monferrato viene designato a comandare la Quarta Crociata, quella che doveva espugnare Gerusalemme e, invece, saccheggia Bisanzio.
 
Però, tutte queste nobili imprese portano con sé anche alcuni, prosaici, risvolti. Sentiamo cosa ne dice uno specialista come Haberstumpf:
Se a partire dal diploma di Ottone I del 967, con cui furono concessi ad Aleramo quindici corti, si può parlare di una stretta connessione tra i marchesi e il Monferrato, è pur vero tuttavia che la configurazione di detto territorio rimase incerta fino ai primi decenni del secolo XII…
…Proprio allora il marchese Guglielmo il Vecchio cercò di dare ordine a queste terre di tradizione famigliare, nel tentativo di costituire un insieme politico quanto più geograficamente omogeneo destinato a durare nel tempo…
…Vanificati i progetti in Terrasanta e perso il regno di Salonicco, i marchesi si limitarono a una pratica di politica matrimoniale con i lignaggi d’Oriente che potremmo definire di routine e da cui null’altro si proponevano, forse, se non di ricavare meri vantaggi diplomatici.
A ciò non fu estraneo, senza dubbio, l’enorme dispendio di denari, mezzi e uomini necessari per le loro imprese che compromise le finanze del marchesato, al punto che viene da chiedersi se la frammentarietà geopolitica propria delle terre aleramiche non sia dipesa, in qualche misura, anche dalle loro costosissime imprese oltremarine...
Walter Haberstumpf, Dinastie europee nel Mediterraneo Orientale,
Torino, Scriptorium, 1995, pp.19,20,23.
 
Ecco. Così cominciamo ad avere una prospettiva più chiara delle difficoltà che si trovarono di fronte Bonifacio II e poi suo figlio Guglielmo, dopo l’ebbrezza delle avventure d’oltremare. Un territorio essenzialmente rurale, con una città di riferimento come Chivasso, marginale nel contesto geografico del marchesato e insignificante al confronto delle grandi città d’Europa e della Penisola, che conoscevano in quegli stessi decenni uno sviluppo demografico rigoglioso. Di qui, uno Stato ancora integralmente feudale, di là un mondo in piena, se pur litigiosa, espansione.
 
Ancora nel secolo XI, erano i vescovi ad abitare le città, mentre i nobili signoreggiavano sui loro domini feudali dai castelli e dalle rocche che punteggiavano il panorama collinare e dagli acrocori da cui si dominavano gli accessi e i transiti di pellegrini e mercanzie. Ma, già nel secolo successivo, l’espansione delle città attrae al loro interno nuovi gruppi sociali, fatti di piccolo nobilato e di piccoli proprietari terrieri, cui occorre aggiungere il maggior peso esercitato da artigiani e commercianti, che vedono crescere le loro attività e i loro profitti. Si costruiscono magioni di pietra, torrioni, rocche, e si edificano mulini, depositi, magazzini, esercizi commerciali per lo scambio e la vendita all’ingrosso come al minuto.
 
A fronte dei diritti feudali che gli antichi Signori si sforzano di esercitare, stanno le rendite che circolano, prima nei palazzi consolari e poi in quelli podestarili, la nascita di nuovi borghi franchi, il dissodamento di nuovi terreni, la scoperta di nuove tecniche per la filatura, la cardatura e la coloritura dei tessuti. Le cerchie delle mura cittadine divengono sempre più ampie e più robuste. Le milizie si fanno meglio armate e, quando non bastano, si possono prendere a soldo mercenari e berrovieri.
 
La Penisola soffre, poi, di alcuni mali antichi: lo Stato della Chiesa la taglia in due come un’invalicabile muraglia. A Roma risiede il Papa e da quel soglio dipendono i destini di tutti i pretendenti alla corona imperiale. Che sono tanti, per via degli incroci parentali disseminati nell’intera Europa, ma tutti ugualmente bramosi dell’investitura.
 
In Spagna, in Francia, in Inghilterra, in Germania, agli albori del secondo millennio si assiste a un progressivo riassorbimento delle spinte frazionistiche maturate dopo la caduta dell’impero Carolingio. Tra il 1035 e il 1150, una buona metà della penisola iberica è ricondotta sotto il dominio cristiano e divisa in quattro regni: Portogallo, Castiglia e Leon, Navarra e Aragona. Dopo la vittoria di Hastings, il 14 ottobre 1066, Guglielmo il Conquistatore schiaccia la successiva rivolta degli anglo-sassoni e mette insieme un regno poderoso. In Francia Luigi VI combatte duramente contro i principati locali e contro Enrico I d’Inghilterra, ma già agli inizi del 1100 si avvia un processo di riorganizzazione che porterà all’individuazione di centri di potere più forti e più definiti. In Germania la riunificazione passa attraverso la dinastia sassone di Ottone e poi di quella salica di Enrico. Gli eventi bellici principali sono quasi interamente rivolti alla penetrazione dei confini orientali e alla conservazione del regno d’Italia, con frequenti calate a sud per controllare quel ganglio vitale dell’impero.
 
Insomma, come osserva Contamine:
…il periodo 1150-1300 conobbe a diverse riprese, e su aree geografiche molto vaste, periodi di pace quasi completa…
Ma, nella Penisola non va allo stesso modo:
l’Italia centro-settentrionale fu teatro di ripetuti tentativi degli imperatori germanici per ristabilirvi il loro dominio. L’insediamento della dinastia angioina nel regno di Sicilia, le sue difficoltà dopo i Vespri Siciliani (1282) provocarono a loro volta aspri conflitti. E per tutto questo periodo, su scala locale o regionale, non cessarono di combattersi Guelfi e Ghibellini. In breve, le ambizioni straniere (tedesche, francesi, aragonesi), il frazionamento politico, le rivalità commerciali, specialmente acute in questo epicentro del rinascimento economico, fecero sì che l’Italia dei secoli XII e XIII conoscesse un elevato stato di belligeranza.
Philippe Contamine, La guerra nel Medioevo,
Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 101-102
 
Di fronte a una situazione siffatta, Guglielmo sa che ha bisogno di sostenitori altolocati per ottenere il supporto degli uomini e dei mezzi che gli mancano e sa che tutte le risorse devono essere indirizzate verso l’espansione. Solo uno Stato più forte e più coeso, capace di intessere una fitta rete di colleganze con i poteri che lo circondano, sarà in grado di misurarsi da pari a pari nel contesto locale e nel consesso europeo. La creazione di uno Stato del genere diventerà il suo punto di riferimento e la stella polare che guiderà costantemente il suo cammino.
 
Vedremo come, ma già lo si intravede quando è appena agli inizi e nel 1258 sposa Isabella de Clare, figlia di Richard de Clare, conte di Gloucester, che, grazie al secondo matrimonio  della madre,  diventerà  figliastro di Riccardo di Cornovaglia. Quel Riccardo il quale, oltre ad essere fratello di re Enrico III d’Inghilterra era pure cognato dell’imperatore Federico II e, dunque, uno dei legittimi pretendenti alla corona imperiale.
E’ vero che l’interesse per quelle nozze è anzi tutto dei Savoia, che appoggiano Riccardo per amicizie, parentele e comuni interessi. Margherita, la madre e tutrice di Guglielmo, viene da quella casa, ma il suo consenso a quel matrimonio è senz’altro dettato anche dalla volontà di portare giovamento al suo giovane figlio e al difficile compito che lo aspetta.
Invece, la candidatura non va a buon fine. Il collegio elettivo del Sacro Romano Impero non riesce a districarsi tra Riccardo e Alfonso di Castiglia. Di conseguenza, nonostante entrambi ottengano il titolo di Re dei Romani, nessuno dei due riesce a imporsi.
 
Intanto, sulla scena politica europea è apparsa una nuova stella: quella di Carlo d’Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII e fratello di Luigi IX il Santo. A Roma è scoppiato un contrasto fra papa Urbano IV e il re di Sicilia Manfredi, voglioso di estendere il suo dominio all’intera Penisola. La politica del papato è immutata da secoli: nessun vicino al soglio pontificio deve ingrandirsi tanto da poter costituire una minaccia per lo Stato della Chiesa. Papa Urbano cerca vanamente un’intesa con Manfredi, poi lo scomunica, offrendo il regno di Sicilia proprio a Carlo d’Angiò e lanciando una specie di crociata contro i suoi due procuratori generali in Lombardia: Oberto Pelavicino signore di Piacenza e il famigerato quanto efferato Ezzelino da Romano.
 
In questo contesto, mentre il Pelavicino riesce a scamparla con una giravolta degna di quei tempi, per Guglielmo è in arrivo una grande occasione: Alessandria. Le furibonde lotte per la conquista del potere cittadino vedono tra le parti contrapposte quelle dei Lanzavecchia e dei del Pozzo. Per facilitare la comprensione di chi legge, diremo che i primi erano Ghibellini e i secondi Guelfi, anche se il valore di tale distinzione avrebbe bisogno di qualche approfondimento.
 
In quanto agli aspetti politico-militari della conquista, lasciamo parlare Bozzola:
Anche nel quinto decennio del secolo Alessandria fu sempre agitata da torbidi interni, e quando Guglielmo vi si mescolò, erano stati banditi dalla città Pagano del Pozzo e i suoi aderenti. Appunto per riconquistare il dominio della città i fuorusciti non esitarono a sacrificare con gli avversari anche l'indipendenza del comune, e invocarono l'aiuto di Guglielmo. Le condizioni dell'accordo furono fissate il 27 settembre 1260. I del Pozzo proponevano al marchese di impadronirsi di Alessandria, chiedevano di essere sostenuti e difesi insieme coi loro alleati, i fuorusciti di Tortona e di Acqui, gli interdicevano ogni rapporto con Alessandrini che non fossero fautori dei del Pozzo. Per questi servizi lo avrebbero creato — lui e gli eredi — capitano e signore di Alessandria, gli avrebbero riconosciuto i diritti che vantava su luoghi tenuti da Alessandria, e il podestà sarebbe stato eletto dietro suo consiglio. Guglielmo entrò presto con la forza in Alessandria, bandì il partito dei Lanzavecchia e investì gli Alessandrini di tutti i beni che gli avevano dato a titolo di donazione, ricevendone per sè e per gli eredi, il giuramento di fedeltà.  
Bozzola, Un capitano di guerra… cit., p. 308.
 
A noi non resta che aggiungere come Manfredi di Svevia approvi e il suo vicario Bernardo di Arnario confermi i diritti dei Monferrato sulla città, però, poiché si tratta della prima grande impresa di Guglielmo, vorremmo aggiungere alle questioni politiche anche una nota narrativa. La prendiamo dalla storia romanzata di Guglielmo VII, scritta da Mario Granata nel 1934. Non sfuggirà ad alcuno l’evidente intenzione agiografica del testo, tipica del ventennio fascista. Se non altro, però, il racconto ci permette di cogliere Guglielmo proprio nel pieno dell’azione.
In tempi normali, nella casupola che sorgeva alla testa del ponte, sulla riva destra, sei gabellieri montavano la guardia di notte perché nessuno potesse passare frodando le some e i pedaggi dovuti. Ma ora, da quando i Pozzi e i Guasco erano stati banditi, il presidio era di dodici uomini: sei montavano la guardia sulla riva sinistra e stavan riparati nella tuga del vecchio traghetto, quello che quando non esisteva il ponte serviva a congiungere le due sponde se il fiume non era in piena. Tanto la casetta quanto la tuga avevano da tre lati una finestrella, e dal quarto una porticina chiusa da due assi sgangherati; dentro, su di un pancone, dormicchiavano le guardie, imbacuccate nelle rozze coperte di lana di pecora loro fornite dagli Umiliati di San Rocco, che erano esonerati da ogni altro balzello.
Mario Granata,Guglielmo Lungaspada (Guglielmo VII di Monferrato),
Paravia, 1934, pp. 29-40, p. 44.
 
Ci vuol poco agli uomini di Guglielmo per aver ragione di quel presidio precario. Ma, improvvisamente, dalla parte di Bergoglio scoppia un incendio che è intercettato dalla vedetta sul campanile di Santa Maria di Castello, la quale suona le campane a martello. Subito fanno eco le campane delle altre chiese e quella del Comune, a segnalare una minaccia ben più grave:
La milizia comunale è accorsa alla piazza della podesteria, ha formato i ranghi, accorre al foro boario divisa in due drappelli, che pigliano per diversa strada…All’imbocco di via degli Orti, via del Castello, via S. Rocco e via Sant’Ubaldo avviene lo scontro con i monferrini. Scaramuccia di poca importanza, perché il nemico non è tracotante, non è neppure violento, attende lo scontro in posizione di difesa, ed invita alla calma ed alla pace.
Granata,Guglielmo Lungaspada… cit., p. 45.
 
Quindi si fa avanti Guglielmo, affiancato da Pagano del Pozzo, e dice parole rassicuranti.
A quelle parole un mormorio di approvazione si alzò dalla folla. – Alla podesteria! Alla podesteria! – si gridò da ogni parte…. Il popolo fece ala al passaggio lungo le contrade dei Tessitori e dei Mercanti; poi affollò la piazza come per una festa. Era giorno appena. Alla torre della podesteria fu ammainato il grande gonfalone rosso crociato.
Granata,Guglielmo Lungaspada… cit., p. 46.
Tutto vero, o almeno verosimile?
Attraccato alla riva sinistra, proprio nei pressi del ponte, esisteva sicuramente il barcarozzo che serviva un tempo da traghetto, così come dovevano esserci gabellieri alla porta della riva destra. L’incendio divampato in Bergoglio appare meno verosimile, considerando che quel borgo era da sempre ricetto dei Pagano e dei Trotti che in quel momento accompagnavano le truppe di Guglielmo con loro milizie. Torna a essere verosimile la descrizione del tragitto fino alla piazza del duomo e della podesteria.
Del tutto inventata, invece, la ricostruzione dell’incontro-scontro, dell’entusiasmo della folla e dell’ammainamento del gonfalone cittadino alla comparsa di Guglielmo. Ma, come abbiamo già detto, l’intento di esaltare il giovane condottiero è evidente.
 
Bella impresa, comunque, che prevedeva anche la conquista di Acqui e di Tortona, sempre con l’aiuto di fuorusciti. Ma le cose vanno in modo del tutto diverso. Oberto Pelavicino, scampato alla crociata, è più in auge che mai. Nel novembre del 1261, Enrico di Scipione occupa Tortona in nome di Oberto. Passano pochi mesi e, nella primavera del 1262, Bernardo di Arnario rompe il patto siglato con Guglielmo e occupa Alessandria con l’aiuto di duecento mercenari tedeschi al soldo di re Manfredi, richiamando in città i Lanzavecchia.
 
Per il giovane Guglielmo una sconfitta bruciante, la consapevolezza di avere nel Pelavicino un temibile avversario e un ammonimento: non c’è spazio per lui tra le file ghibelline. Meglio vedere come si mettono le cose, per decidere poi il passo da fare. E, nella primavera del 1264, il momento pare irrevocabilmente giunto: Manfredi è sempre più debole, mentre Carlo d’Angiò sta per scendere in Italia. Guglielmo allora si reca ad Alba, città dichiaratamente angioina, e stipula un’alleanza col siniscalco di Carlo in Lombardia, Bertrando del Poggetto. Il Pelavicino reagisce duramente, ma Guglielmo ha la meglio. Nello stesso anno prende il controllo di Acqui, di Novi e di Nizza. Intanto, Carlo d’Angiò acquista un nuovo, potente alleato in Filippo della Torre, signore di Milano. Gli stessi Torriani, fieri ghibellini e parte avversa dei della Torre, si piegano agli eventi. Così, l’esercito angioino si trova la strada spianata quando scende dal colle di Tenda per proseguire la sua marcia verso il Sud e travolgere l’esercito di Manfredi.
 
Però, mentre Carlo d’Angiò debella Manfredi e poi il povero Corradino a Tagliacozzo, Guglielmo non riesce a trarre dall’angioino i vantaggi sperati. Ha bisogno di uomini, o almeno di mezzi per arruolarli, ma Carlo gli lesina questi e quelli. Sono anni di alti e bassi. Conquista la fiducia dei Fallabrini, rappresentanti del partito guelfo di Pavia, che tiene in custodia Tortona per incarico di Oberto Pelavicino. Così, quando i Fallabrini riescono a cacciare gli avversari da Pavia, Guglielmo ottiene la signoria tortonese. Ma non riesce a prendere Ivrea e si trova i Vercellesi come avversari.
Quando, nell’autunno del 1269, Carlo d’Angiò convoca a Cremona i signori delle principali città lombarde per porre le condizioni del suo dominio, i Torriani, i Fallabrini e Guglielmo dichiarano il loro dissenso, dicendosi disposti ad accettarlo come amico, non come signore. Ma già pochi mesi dopo i Torriani cambiano parere e gli giurano fedeltà, lasciando Guglielmo sempre più solo.
 
L’uomo non si arrende facilmente, neanche quando Carlo occupa Alessandria. Anzi, cerca rabbiosamente la sua rivincita, costruendosi nuovi rapporti e tessendo nuove tele. Alfonso di Castiglia è l’opportunità che si presenta e Guglielmo non esita a intrattenere colloqui con i suoi inviati, mettendosi in rottura aperta con il d’Angiò.
Abbiamo già incontrato il re di Castiglia qualche anno prima, quando lui e Riccardo di Cornovaglia si disputarono la corona imperiale, senza successo per entrambi. Alfonso comunque persevera e il patto con Guglielmo è presto concluso: il marchese di Monferrato agirà come intermediario di Alfonso in Italia, con il compito precipuo di attirare alleati nelle file antiangioine. La figlia di Alfonso, Beatrice sarà la promessa sposa di Guglielmo, rimasto vedovo di Isabella di Gloucester.
 
Non occorre di più per far prendere lena a Guglielmo. Il malcontento provocato dai comportamenti di Carlo d’Angiò, sia all’interno della curia romana che delle corti lombarde, continua a crescere. Guglielmo contatta gli Astigiani, i Pavesi, i Torriani, i Savoia, nonché i cardinali antiangioini del Sacro Collegio. Quando, nel luglio del 1271, si abbocca con gli ambasciatori di Alfonso, il piano procede a vele spiegate. Si concorda un secondo matrimonio, tra la figlia di Guglielmo, Margherita, e l’infante di Castiglia, Giovanni. Ma, ciò che pesa maggiormente, Alfonso s’impegna a mandare in Italia nella primavera dell’anno successivo 10.000 soldati spagnoli, guidati dal medesimo Giovanni. Sono i mezzi che Guglielmo attende da anni e che dovrebbero permettergli di consolidare ed estendere il suo dominio. Ora sì che è tempo di festeggiamenti. Guglielmo arriva a Burgos, dove Alfonso tiene corte, in settembre. In ottobre sposa Beatrice, in novembre viene designato dal suocero come suo vicario per l’Italia.
 
Purtroppo, il ritorno in Italia non è altrettanto ricco di soddisfazioni. C’è un nuovo papa, Gregorio X, che si mostra favorevole a Carlo d’Angiò sperando di convincerlo ad appoggiare la Santa Crociata che vuole bandire per liberare i Luoghi Santi. Ciò, da solo, basta a intiepidire molti della lega antiangioina messa in piedi da Guglielmo. In più, Carlo attacca proprio i territori sotto il dominio monferrino. Cade Acqui, cade Ivrea, cade Tortona e gli Astigiani si trovano messi a mal partito. Alcuni fatti però intervengono a ribaltare nuovamente la situazione. Tra il 1272 e il 1274, arrivano due contingenti di militari spagnoli, esigui ma preziosi per i ribelli; Genova si libera dalla soggezione angioina e intraprende una politica di aggregazione fra coloro che meno si prestano a una continuazione del governo d’Angiò; governo che, comunque, subirà forti limitazioni dall’elezione di Rodolfo d’Asburgo al soglio del Sacro Romano Impero.
 
Nel 1275 prestano fedeltà ad Alfonso come re dei Romani Pavia, Asti, Genova, Verona, Vercelli, Novara, Mantova, una riottosa Alessandria e, infine, Tommaso di Saluzzo. In tutto questo susseguirsi di vicende, Guglielmo risulta stranamente assente dalle cronache e non figura neanche fra i presenti alla battaglia di Roccavione, che il 10 novembre disfa l’esercito provenzale mentre già è per la via dei monti, diretto verso casa. Assente, forse perché gli alleati hanno vinto ma non per Alfonso di Castiglia, che il papa è riuscito a distogliere dal proposito di passare le Alpi per mettersi personalmente a capo della lega antiangioina e, finalmente, a rinunciare al titolo di Re dei Romani.
 
Quella di Roccavione è considerata una delle poche vere battaglie combattute nel 1200. Ciò ci offre il destro per dire qualcosa degli armamenti e degli armati messi in campo da Guglielmo. E’ già noto che, a partire dal XIII secolo, la cavalleria pesante  diventa il nucleo centrale degli eserciti. Cento cavalieri, ben montati e ben equipaggiati, rivestiti di ferro, possono valere, secondo l’opinione corrente, quanto mille uomini a piedi. Ma un equipaggiamento completo costa, e costano anche gli scudieri e i valletti che del cavaliere formano il seguito, assistendolo e talvolta sostenendolo in battaglia. E’ così che la cavalleria viene a formare una classe professionale, cui hanno accesso non solo nobili, bensì anche uomini capaci ed equipaggiati a dovere. Di qui, la pratica dell’assoldamento, che letteralmente significa prendere a soldo. In questo caso, primi milites o strenui milites, ma il sistema si estende progressivamente anche agli arcieri e ai balestrieri, a piedi o a cavallo.
Tutto ciò è l’effetto, ma anche la causa, dell’intiepidirsi dei vecchi obblighi feudali. Si discute di tutto: del numero di uomini, del loro equipaggiamento, del periodo di servizio, dei luoghi dove esso deve essere prestato, dei risarcimenti e dei rimborsi eventuali. Si discute, e spesso si trova più semplice riscattare il servizio offrendo denaro che servirà ad assoldare gente ben più valida e munita. I cosiddetti mercenari, appunto.
In Italia l’obbligo feudale resiste più a lungo, soprattutto nei principati settentrionali come il marchesato di Monferrato. Ma delle milizie marchionali e del loro armamento sappiamo ben poco. Essenzialmente quel che ci dice Settia, che se n’è occupato in due distinti lavori:
- “Come si usa in Monferrato”, in “Bonifacio, marchesedi Monferrato, re di Tessalonica”, Atti del Convegno Internazionale, a cura di Roberto Maestri, Acqui Terme 2009, pp. 7-15, si occupa soprattutto dei secoli XII e XIII;
- “Grans cops se donnent les vassaux”, in “Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale”, a cura di Rinaldo Comba, Unicopli, Milano, 2006, pp. 161-206, si occupa essenzialmente della battaglia di Gamenario del 1345, non senza utili digressioni ai periodi precedenti.
 
Ecco cosa dice nel primo dei due lavori:
È noto quanto sia spinoso, in generale, il problema degli effettivi che componevano gli eserciti medievali; anche nel nostro caso si dispone soltanto di dati numerici parziali e occasionali il cui valore rimane quindi puramente indicativo…. Da tali dati si ricava l’impressione che nel marchesato si potessero normalmente arruolare un massimo di 500 cavalieri e forse, secondo la proporzione corrente, un numero triplo di combattenti a piedi.  
Settia, Come si usa in Monferrato cit., pp. 11-12.
 
Anche sull’armamento non si posseggono che dati sporadici, ma in questo campo valgono naturalmente, per il marchesato di Monferrato, gli stessi usi generali vigenti in tutta l’Europa occidentale. Basterà quindi qualche esempio. Nel 1217 alcuni uomini operanti a Paciliano furono feriti e persero l’intero loro guarnimentum costituito da “spatam, panzerias, capellos, clamides, cultellos, rco set lanzas”. Si ha qui, verisimilmente, un saggio dell’armamento offensivo e difensivo di due diverse categorie di fanti, più o meno ben equipaggiati, che si differenziano per la funzione loro assegnata, rispettivamente, di lanciere e di tiratore…Come avveniva nel resto dell’Occidente, anche gli Aleramici di Monferrato si servivano dunque di tiratori montati armati allora esclusivamente di arco ma che, come si è già visto, in tempi di poco successivi apparivano ormai completamente sostituiti da balestrieri a cavallo.
Settia, Come si usa in Monferrato cit., p. 14.
 
L’intermezzo su armi e armati, che abbiamo testé concluso, non è stato un siparietto a sé stante. Possiamo considerarlo, invece, come una linea di separazione tra il periodo dell’espandersi della potenza angioina e quello del suo eclissarsi. Dopo la rinuncia di Alfonso di Castiglia, anche il nuovo imperatore, Rodolfo d’Asburgo, mostra difficoltà a radunare uomini e armati in misura sufficiente per scendere in Italia a imporsi non solo con l’autorità, bensì anche con la forza delle armi. I trionfatori di Roccavione, così, possono capitalizzare la vittoria occupando gli spazi lasciati vuoti dal tracollo di Carlo.
 
Guglielmo torna in prima fila. Nella primavera del 1276 occupa Torino, che i Savoia avevano perduto nella guerra con gli Astigiani del 1255-56 e che era caduta in mani angioine nel 1270. Lo scorno dei Sabaudi è molto forte e Guglielmo pagherà caro quest’affronto. Ma, in quel momento, egli si sente all’apice della sua potenza, a un passo dal suo obiettivo di sempre, e non se ne cura, volando di successo in successo. Sconfigge sanguinosamente i Tortonesi, messisi in campo per il castello di Serravalle, entra trionfalmente in quella Pavia che gli fu tanto ostile ai tempi del Pelavicino, assale Arona, si afferma a Ivrea, Vercelli, Trino, e poi Alessandria, Acqui, Tortona. Molti piccoli comuni lombardi, in un’adunanza tenuta a Vercelli nel 1278, lo nominano loro capitano di guerra.
 
Ma quali erano i caratteri di questi possessi, gli elementi distintivi degli accordi, i titoli che Guglielmo andava ad assumere volta per volta? Domande cui occorrerebbero risposte articolate, riflessioni approfondite e ragionamenti che distinguano caso per caso. Cercheremo di darne qualche buon accenno, ricorrendo a chi ha più investigato su tali aspetti della questione.
Bozzola, ad esempio, dopo aver elencato minutamente i singoli termini degli accordi che ci sono giunti, così sintetizza:
Da qualche clausola dei trattati fra il marchese e i comuni sì possono trarre soltanto tenui indizi per argomentare almeno che — a somiglianza di quanto abbiamo notato per Alessandria e per Vercelli — dovunque i partiti erano, alla radice, l'espressione degli antagonismi di famiglie magnatizie divise da interessi vari, da rivalità, da ambizioni di dominio…. 
Però,…noi non vediamo — se non in alcuni pochi comuni e, fatta eccezione per Vercelli, in un secondo momento — il disegno di una politica di Guglielmo intesa a rappacificare i partiti per innalzarsi e trionfare di tutti. Sono al contrario i comuni, o meglio i partiti o le classi che tengono il potere nei comuni, i quali impongono al marchese condizioni e limitazioni analoghe dovunque…. n sostanza, per questo lato i trattati hanno la forma di una vera e propria assunzione in servizio, dietro adeguata retribuzione, del marchese come capitano di guerra, il quale opera, secondo le istruzioni del comune, a tutela della pace interna e a difesa contro i nemici esterni. Per un altro lato, poi, essendo il capitano anche un grande feudatario, investito di ampi poteri giurisdizionali su terre e uomini, essi fissano obblighi e doveri reciproci quali soltanto si riscontrano in trattati di alleanza. E infine, in quei comuni sui quali il marchese di Monferrato faceva valere ancora antichi diritti feudali della sua Casa, gli si riconosce una molto attenuata e innocua supremazia feudale, che si esprime spesso soltanto in certe formalità esteriori.

Bozzola, Un capitano di guerra… cit., p. 360-362.

 
Sullo stesso tema, Alberto Luongo, che ha pubblicato recentemente un saggio che fa particolare riferimento alle istituzioni alessandrine, esprime queste considerazioni:
L’attenzione posta finora sui limiti del potere signorile, originati dalle significative autonomie giuridiche, economiche e istituzionali che le città seppero mantenere anche nelle fasi più avanzate della costruzione del potere su scala regionale − pur senza raggiungere i livelli del XII e del primo XIII secolo –, porta ora gli studiosi a vedere l’originaria fase duecentesca del fenomeno signorile non più come in netta contrapposizione con i precedenti sviluppi comunali, ma come una fase di sperimentazione politica che da essi prende le mosse e su di essi si innesta in una maniera che non fu immediatamente percepita come traumatica…
Alberto Luongo, Istituzioni comunali e forme di governo personale ad Alessandria nel XIII secolo,
in “Reti Medievali Rivista”, (12), 2(2011), Firenze University Press, p. 2.
 
E, dopo aver ricordato numerosi esempi, da Ezzelino al Pelavicino, da Guglielmo VII ai della Torre, conclude:
Schieramenti di riferimento, personalità ed effettivo potere dei protagonisti, hanno avuto però in comune l’iniziale inserimento dei signori nell’organigramma istituzionale delle città e la fine del governo personale nel momento in cui questo aveva finito per contrastare con un certo grado di partecipazione collettiva alla vita politica e con i progetti dei gruppi sociali che lo sostenevano.
Spesso, ma non sempre, era il Popolo a sorreggere e promuovere i tentativi signorili, probabilmente intesi come mezzo di affermazione delle proprie prerogative di governo e della propria cultura istituzionale, in un momento in cui gli scontri di fazione perdevano gran parte della loro già difficile capacità di controllo.
Luongo, Istituzioni comunali cit., p. 4.
 
Pure, mentre Guglielmo sembra all’apice della sua potenza e della sua gloria, quello è anche l’inizio della sua fine. Che comincia con la città delle città, Milano, l’emblema delle libertà cittadine e il simbolo della sconfitta del potere imperiale di Federico Barbarossa.
A Milano si è istaurato un abbozzo di potere signorile nella persona dell’arcivescovo Ottone Visconti, uomo di vaste amicizie, di acuto pensiero e di raffinata diplomazia. Ma i suoi contendenti, i Torriani, se pur espulsi dalla città, si fanno sempre più forti e minacciosi nel contado. Il Visconti, allora, dopo aver aderito alla nuova lega imperiale promossa da Guglielmo, decide di servirsi proprio delle capacità militari del marchese di Monferrato, chiamandolo a Milano per offrirgli la capitania. Ciò che avviene il 20 agosto  del 1278, dopo il trionfale ingresso di Guglielmo in Milano il giorno 18.
Tra Ottone Visconti e Guglielmo di Monferrato comincia così un confronto giocato sul filo dei propositi del primo e delle richieste del secondo. Richieste che subiscono una brusca battuta d’arresto quando Guglielmo, nel maggio del 1280, intraprende il viaggio verso la Spagna, insieme alla moglie Beatrice e alla figlia Margherita che – ricorderete – era promessa sposa di Giovanni di Castiglia.
 
Il viaggio inizia bene e la comitiva passa tranquillamente per la val di Susa ma, arrivata in Provenza, incappa in un ben calcolato tranello, congegnato da Tommaso di Savoia. Guglielmo è arrestato, trattenuto e condotto prigioniero a Saint Maurice di Rotherens. Scopo dell’agguato? è subito chiaro: Tommaso di Savoia, che nel frattempo ha stipulato un accordo di mutua difesa con Asti, ha un vecchio conto da regolare con Guglielmo di Monferrato, l’occupazione di Torino.
In molti protestano e in molti intervengono per chiederne la liberazione. Ma essa avverrà soltanto dopo che Guglielmo acconsentirà a firmare un accordo particolarmente duro, che insieme alla perdita di Torino aggiunge un risarcimento in denaro e altri vincoli minori.
 
Dopo le nozze di Burgos, dopo gli abboccamenti con Alfonso di Castiglia e Pietro d’Aragona, dopo promesse mai mantenute di uomini e mezzi, Guglielmo torna a occuparsi delle vicende dei suoi domini lombardi e, in particolare, di Milano. Ma Ottone Visconti ha nel frattempo rafforzato la sua presa sulla città e avviato un percorso di rappacificamento con i nemici esterni che ha come principale obiettivo quello di poter fare a meno di Guglielmo e del suo appoggio militare.
Il momento buono giunge sul finire del 1282, quando Guglielmo riconferma Giovanni Poggio alla carica di podestà. Il 27 dicembre, un tumulto di popolo sostenuto dal Visconti caccia il Poggio e, subito, parte un’intimazione a Guglielmo di non farsi più vedere in città. Quindi, Milano fa lega con Cremona, Piacenza, Brescia e Modena contro un probabile rivolgimento del marchese.
 
La forza di Guglielmo è ancora notevole, ma i nemici stanno diventando troppi. Di qui, la lega milanese, capeggiata da Ottone Visconti, di là quella fra Asti e i Savoia, in mezzo insofferenze sempre più marcate al suo dominio, a Vercelli, Tortona, Alessandria, Como, sulle cui braci Ottone Visconti  soffia per alimentare il fuoco. Nel frattempo, Guglielmo accompagna la figlia Violante a Genova, per imbarcarla sulle galee giunte da Costantinopoli, dove Violante va sposa all’imperatore Andronico Paleologo.
 
Torna in Monferrato, ma le cose stanno andando sempre peggio. L’unico fedele rimastogli è l’amico di sempre, Tommaso di Saluzzo. Il resto è tutto un affannoso rincorrere i tumulti, le sedizioni, le conferme di primato in città che, ad una ad una, si distanziano dal suo operato.
Nel 1287, Amedeo V di Savoia riunisce intorno a sé una lega contro il marchese, alla quale aderisce anche Genova e si accostano città come Asti e Pavia. Guglielmo riesce a riconquistare quest’ultima, però la guerra dilaga. Guglielmo si difende bene, rintuzza ogni assalto, contrasta ogni minaccia, fa valere la sua tenacia e il suo genio militare. Ma i nemici sono troppi e lo pressano da più parti.
 
Finché…finché, dopo aver rintuzzato una sortita dei Piacentini, ha sentore che in Alessandria tiri aria di tempesta. E la tempesta si abbatte sul suo capo il 10 di settembre, quando gli Alessandrini lo prendono prigioniero.
 
Sull’episodio occorre subito far notare che le fonti alessandrine primarie mancano del tutto: il Liber crucis della città risulta pressoché privo di documentazione dal 1228 al 1292, mentre l’archivio del comune, conservato nel campanile della cattedrale di San Pietro, è quasi totalmente distrutto da una rivolta antiviscontea avvenuta nel 1392. Restano i cronachisti posteriori, soprattutto Claro (fine ‘400),  Lumelli (seconda metà del ‘500) e i di poco successivi Schiavina  e Ghilini. Le loro versioni, però non combaciano integralmente.
 
Il Claro, ad esempio, dopo aver accennato a una campagna condotta da Guglielmo contro i della Torre, a cui partecipano anche “milizie alessandrine”, sostiene che il marchese venga imprigionato al suo ritorno perché gli Alessandrini andavano dicendo che egli  volebat totam Civitatem destruere.
Giovanni Antonio Claro, Chronica Alexandrina, in “Vecchi cronisti alessandrini”, a cura di L. Madaro,
Biblioteca della Società Storica Subalpina, XC, nuova serie XIII, Casale, Tip. Cooperativa, 1926, p. 174.
 
Il Lumelli sbaglia la datazione e fa un’affermazione quanto mai improbabile: che Guglielmo attacchi Alessandria “cum Astensibus”.
Raffaele Lumelli, De origine Civitatis Alexandriae, in “Vecchi cronisti alessandrini”, a cura di L. Madaro,
Biblioteca della Società Storica Subalpina, XC, nuova serie XIII, Casale, Tip. Cooperativa, 1926, p. 249.
 
Nel complesso, dunque, preferiamo affidarci alla ricostruzione che ci sembra più affidabile. Quella del Ghilini:
I Guelfi Alessandrini, in parte indotti da odio e malevolenza verso il Marchese, in parte stimolati dagli Astigiani, deliberarono con l’occasione opportuna della sua assenza di levare dal collo della patria  il duro e insopportabile giogo della sua servitù e della sua tirannia, per ridurla alla primigenia, antica libertà. Perciò, collegatisi con alcune città vicine che molto aborrivano il tirannico dominio del Marchese, operarono in modo che tutto il popolo alessandrino, sollevato con gran tumulto, pigliò coraggiosamente le armi e, con l’aiuto che da ogni banda gli fu dato dai Confederati, i quali speditamente in buon numero, chi a piedi chi a cavallo, conversero in Alessandria, si pose all’ordine, per uscire in campagna e perché alla perfezione di così valoroso e potente esercito altro non mancava che un Generale, fu fatto in necessità così grande e in occasione di tanto rilievo, con voto e consenso universale dei soldati, Alberto Guasco d’Alice, uomo con gran pratica d’armi, d’esperienza e in particolare molto amato da quasi tutta la città di Alessandria sua patria.
Girolamo Ghilini, Annali di Alessandria, Milano, G. Marelli, 1666, p. 49.
 
Con quel ben unito e ordinato esercito, entrò egli animosamente nel Monferrato, saccheggiando e ruinando il tutto con ogni libertà militare; onde il marchese, sbigottito e quasi abbandonato da se stesso, lasciò da parte tutti i negozi e con la sua soldatesca, la quale era assai in buon numero, inviossi con gran prestezza verso Alessandria. Frattanto, gli Alessandrini che di già con l’esercito erano arrivati alla terra di Castelletto, alla nuova della venuta del Marchese fecero alt per poco spazio di tempo; dipoi, essendo molto desiderosi di combattere, non vedevano l’ora di far giornata col nemico e perciò andarono con gran coraggio ad incontrarlo. E affrontatisi presso la terra di San Salvatore ambedue gli eserciti, fu con tanto animo e ardire dagli Alessandrini cominciata la battaglia che il Marchese, dopo aver, valorosamente combattendo, sostenuto un pezzo il loro impeto, sopraggiunto dalla gran quantità dei Collegati, fu costretto a voltar le spalle alla scaramuccia e ben presto sopra di un cavallo fuggirsene. Ma subito il Generale Alberto, seguitandolo con una spedita e animosa squadra di cavalleria, dopo aver posto in rotta e ruina tutto l’esercito nemico, alli 10 del mese di settembre vivo lo fece prigione, trattenendolo con una collana d’oro che gli gettò al collo mentre fuggiva e legato con una catena di ferro lo condusse vittorioso e trionfante in Alessandria, dove fu dato in stretta custodia finché fu fatta una sotterranea cassa, foderata d’intorno di tavole, nella quale due giorni dopo la sua prigionia fu miseramente rinchiuso. E’ opinione che quella cassa fosse fatta dove adesso si vede il Palazzo dei Governatori di questa città, nel qual luogo era in quei tempi fabbricato il pretorio.
Ghilini, Annali di Alessandria cit., p. 50.
 
Ora, tralasciando l’episodio un po’ folcloristico della collana d’oro con cui il Guasco trattiene il marchese, il resoconto pare tutto dalla parte dell’onore e del coraggio degli Alessandrini. Asti? “In parte stimolati”, dice il Ghilini, non specificando come.
 
Tutt’altra musica, invece, nelle fonti non alessandrine. Vediamo cosa ne dicono, ad esempio, gli “stimolatori” astigiani del Codice di Malabayla, nella versione riveduta e corretta, pubblicata dall’Accademia dei Lincei:
Nel 1289 Guglielmo marchese di Monferrato tentò con poderoso esercito la conquista d'Asti e di Alessandria, ma invece egli stesso fu preso e tenuto in prigione fino alla sua morte.
Codex Astensis qui de Malabayla communiter nuncupatur, Salviucci, Roma 1887, vol. I, p. 7.
 
Asciutti asciutti sul fatto, ben più ciarlieri sulla “stimolazione”:
Ai dieci di settembre gli Alessandrini, benché aderenti al marchese di Monferrato, stretti dalle sollecitazioni di Matteo Visconti e vinti dalla promessa di 35,000 fiorini d’oro fatta da Asti (*), insorgevano contro di lui, loro ospite e lo carceravano.
(*) Cosi la cronaca del Ventura. Il S. Giorgio dice 80,000 (Cibrario. Stor. della Mon. di Savoia II, 213). La cronaca del Monferrato riferita dal Moriondo (Mon. Aq. II, 198) dice 85,000.
Codex Astensis… cit., p. 115.
 
Non se ne verrà mai veramente a capo, così come di molte dicerie delle cronache, quali le percosse e la prova del piombo fuso sul cadavere del marchese, pretesa da Pagano del Pozzo.
 
A noi sembra comunque opportuno chiudere l’episodio con le parole di Settia:
Poco dopo in Alessandria gli Astigiani corruppero la popolazione con la promessa di 85.000 fiorini d'oro e la predisposero a sollevarsi contro il marchese. Le fonti che ricordano l'episodio non sono sempre concordi riguardo alla cronologia e allo svolgimento dei fatti, ma sarà certo da accettare quanto riferiscono le cronache più vicine nel tempo e nello spazio: avuto sentore della trama contro di lui, Guglielmo si presentò alle porte di Alessandria il 10 settembre per chiederne conto, i cittadini lo avrebbero rassicurato convincendolo a entrare in città accompagnato solo da una modesta scorta. Fu facile allora catturarlo. Guglielmo fu poi rinchiuso in una gabbia di legno dove fu costretto a passare il resto dei suoi giorni.
Settia, Guglielmo VIIcit., p. 768.
 
Poche notizie per concludere la sua storia:
- Dopo quasi un anno e mezzo di prigionia, senz’altro avvilito nel corpo e nello spirito, Guglielmo VII muore il 6 febbraio 1292. Il suo corpo troverà sepoltura nell’abbazia di famiglia di Santa Maria di Lucedio;
- nel frattempo, i suoi nemici si erano buttati come un cane sull’osso: Alessandria, Asti, i Visconti e i Savoia portano via terre, castelli e borghi, pur difesi accanitamente dagli abitanti;
- delle città soggette al dominio di Guglielmo, gli rimangono fedeli solo Casale, Ivrea ed Acqui. Dei consanguinei, si prodigano soltanto i conti di Biandrate e l’amico di sempre, Tommaso di Saluzzo;
- lo stesso Tommaso conduce Giovanni, l’unico erede maschio della famiglia, al sicuro prima nella sua terra in Revello, poi nel Delfinato e infine alla corte angioina. Qui, il 26 dicembre 1293, il marchese Giovanni ratifica le tregue stipulate dai suoi rappresentanti col Comune di Asti;
- quanto al comandante vittorioso, Alberto Guasco d’Alice viene ricompensato con la podesteria della città di Milano.
 
Rimane da dare un giudizio sul personaggio e sulla sua opera. Tiranno spietato o politico preveggente? Dante lo mette in Purgatorio e ha per lui parole pesanti:
« ...Quel che più basso tra costor s'atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese... »
Dante Alighieri, Purgatorio; canto VII, 133-36
 
Noi, però, preferiamo affidarci ancora una volta alle parole di Settia:
Guglielmo, peraltro, non aveva affatto inteso allargare il Marchesato includendovi le città sottoposte al suo dominio, ma si era sforzato di dare forma a un governo forte e stabile che superasse le lotte di fazione da cui erano allora dilaniati i Comuni cittadini; e se la costruzione, da lui messa in piedi con accorgimenti politici e attività di uomo di guerra, ebbe fondamenta troppo malferme per reggere a lungo, offrì comunque un modello che fu imitato dai signori successivi. I suoi rapporti con Manfredi, con Carlo d'Angiò, Alfonso di Castiglia e con Pietro d'Aragona gli assegnano comunque - come scrisse A. Bozzola - "un posto cospicuo nella vita italiana del secolo XIII".
Settia, Guglielmo VIIcit., p. 769.
18/02/2014 20:44:49
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